C’era una volta a Hollywood, Analisi interpretativa e significato

Analizzare le forme di C'era una volta a... Hollywood significa riscoprire l'amore per un cinema estremamente vivo nell'immaginario dell'autore

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C’era una volta a Hollywood è un appassionato racconto di cinema. E parlare di fiaba a proposito del nono film di Quentin Tatantino non è solo dovuto all’incantevole invocazione del titolo. Di fiabesco c’è soprattutto la profonda riflessione che il regista inscena sul tema della finzione, essenza della Settima Arte. Non è solo il film ad essere una fittizia messa in scena, ma è la natura intrinseca dell’esperienza cinematografica a configurarsi come un’illusiva rappresentazione.

Tarantino ha quindi intrapreso un’indagine sul complesso rapporto tra la realtà e la finzione, dei quali il cinema si fa termine medio, processo che trasforma il reale in finto e il finto in reale. Tutto il film risulta essere una densa opera meta-cinematografica, in cui il regista sovrascrive continuamente intenti, simboli e pagine di storia: del Cinema e del suo cinema.

Per fare ciò C’era una volta a Hollywood è stato concepito, alla stessa maniera di Bastardi senza gloria, come un film ucronico. Una re-interpretazione della Storia, nella quale la grande capacità di storytelling di Tarantino viene calata in un contesto realistico. Per tratteggiare l’epoca — meravigliosamente dipinta come mai prima dalla musica e dalla citazione perpetua di una Hollywood dimenticata — diventa fondamentale la figura di Sharon Tate. È l’elemento cardinale che permette alla storia di mantenere quella patina di verosimiglianza in cui la coppia Rick Dalton-Cliff Booth riesce a muoversi come archetipo del mestiere attoriale.

“Se pensate di vedere doppio non regolate il vostro televisore perché, bhe, in qualche modo è così!” (C’era una volta a Hollywood)

Il primo input del film, quasi una didascalia, rende esplicito il significato del duo formato da Rick Dalton e il suo stuntman. Come tanti altri film, C’era una volta a… Hollywood si appropria del tema del doppio, attribuendogli tutte le complesse sfumature che assume la dicotomia tra realtà e finzione. Emblematico lo scambio dei loro nomi nei titoli di testa, un gioco non troppo sottile ma di certo riuscito. La dichiarazione di una congegnata macchina cinematografica, che sposta continuamente il binario della narrazione tra diversi livelli narrativi.

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Si creano quindi una serie di variazioni su questo topos fondamentale, che scinde le diverse identità del film, dei personaggi, nonché dell’autore e dello spettatore. Nella sequenza in cui seguiamo Cliff tornare al suo camper la macchina passa sopra un cinema Drive-In, centrando nell’inquadratura i raggi del proiettore. Si squarcia così la tela, il film ci viene proiettato letteralmente addosso, rendendoci una componente attiva.

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Ciò è reso ancora più evidente nella sequenza in cui Sharon Tate è al cinema per vedere il suo film. Il modo in cui si compiace delle reazioni del pubblico in sala crea lo spazio a Tarantino per sostituirsi alla co-protagonista: un cantuccio del poeta, come lo definirebbe Manzoni. Non per esprimere, ma per guardare. Utilizzando il primo piano sui piedi eleva un suo stilema a simbolo della sua presenza. E scindendosi tra fruitore e autore, Tarantino si rivolge direttamente al suo pubblico, ribadendo di essere prima appassionato cinefilo che cineasta. I bellissimi primi piani frontali sullo sguardo di Margot Robbie creano un collegamento particolare con la sala. E così Tarantino ride dietro la cinepresa, ammirando ad un tempo la sua opera e le reazioni dei suoi spettatori. Un raffinato gioco di specchi per cui ci si trova dall’altra parte dello schermo, e che rende questa sequenza particolarmente centrale e significativa.

Film nel film, film sul film.

Questo è solo uno degli strati che Tarantino abilmente crea. Infatti, benché Sharon Tate sia il centro e la circonferenza del sistema di personaggi, il polo della narrazione è sicuramente la coppia Dalton-Booth. L’uno incarna la falsità scenica, il secondo la realtà fisica dell’attore. Mentre seguiamo le avventure urbane di Cliff, il personaggio di Di Caprio è relegato al set per diventare il protagonista di un’articolata riflessione sul momento creativo del cinema. E quale miglior pretesto narrativo del western, da sempre genere di confine tra il cinema d’autore e i tanto amati B-Movies.

Rick Dalton è sul set per girare, nel ruolo del cattivo, l’episodio pilota della serie western Lancer. Si miscelano continuamente i piani narrativi tramite la finzione meta-cinematografica: Tarantino si appropria della macchina di Sam Wanamaker, orchestrandone i movimenti e facendo combaciare i due livelli della storia. Invece però di seguire la vicenda istante per istante attraverso un piano-sequenza, lascia che il montaggio intervenga a moltiplicare il singolo sguardo in plurimi punti di vista. La finzione si realizza non solo nel contenuto, ma anche nella forma, che non smette di essere cinema anche quando ritrae il cinema stesso. Assistiamo all’istante, all’uno, che genera il molteplice. La finzione nella finzione di un film già montato nel momento stesso in cui viene girato.

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Allo stesso modo viene scandagliato a fondo il gesto creativo dell’attore. Mentre Rick Dalton, nel confronto con la giovanissima Trudi Fraser, vive il passaggio ad nuovo cinema dal quale è tagliato fuori, diventa doppio di se stesso. Nell’istrionico sfogo nel camper diventa evidente che Di Caprio interpreti un personaggio bipolare. L’utilizzo dello specchio in questa scena, per cui il riflesso di Rick Dalton guarda in camera, puntando il dito e bucando la quarta parete, sottolinea la sua natura ambigua.

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Ma in quanto film ucronico, la Storia è una cifra di riferimento di C’era una volta a… Hollywood.

Ed è nell’essere una revisione critica della Storia che questo film esprime al massimo il suo potenziale. Sviluppa tutte le possibili antitesi della Storia, facendole coesistere in un perfetto equilibrio. Se la Storia è la realtà dei fatti, la sua negazione immediata è la finzione. Ma su questo il film si è ampiamente espresso. Più interessante è il dualismo tra la Storia come certezza, contrapposta alla possibilità.

Il tramonto di Hollywood sembra parlare della fine certa del cinema. Ed è Rick Dalton a viverlo sulla sua pelle, costretto a piegarsi alla logica del sistema produttivo. Sharon Tate e l’abbraccio che la unisce al protagonista alla fine del film rappresenta allora il cinema come possibilità. Non solo nel modo amorevole e puro in cui questo film la resuscita, ma soprattutto nel modo in cui questo film la salva. Tarantino si rifugia nella possibile riscrittura della storia, dichiarando apertamente il suo amore alla gloriosa stagione della Hollywood classica, morta insieme a Sharon Tate.

Tutto fa presagire il massacro.

L’inserimento del voice-over dettaglia minuto per minuto la ricostruzione dei momenti precedenti la strage. Una continua commistione di stili caratterizza in generale tutta l’opera, non solo nell’inflessione sulla grammatica del genere horror nella sequenza con la family e Cliff al ranch. In questo caso viene adoperato il registro documentaristico, impreziosito dall’inserimento di finte immagini di repertorio. Cronaca che diventa narrazione. L’ennesimo gioco di prestigio rovescia le aspettative, regalandoci la sequenza certamente più tarantiniana.

Ed è qui che finalmente vediamo Cliff Booth entrare in azione quale controfigura. Sostituendosi a Di Caprio, letteralmente fuori dalla scena, sarà lui a proteggere la sua proprietà. Come fu per il disgraziato Polanski nella realtà, anche Rick Dalton non è presente a difendere sua moglie al momento dell’aggressione, e il film sembra alludere ad altre sottili analogie. L’arrivo in aeroporto di Rick e Francesca è infatti una variazione della sequenza iniziale in cui vengono presentati Polanski e Sharon Tate, persino nel taglio di capelli di Di Caprio.

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