Shutter Island, spiegazione del thriller di Martin Scorsese

Shutter Island è uno dei film più amati del grande regista Martin Scorsese, nonché uno dei più contorti e criptici, ecco una spiegazione

shutter island: una scena del film
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Nel contesto dell’ultima filmografia di Martin Scorsese, un film come Shutter Island (stasera alle 21 su Iris) si era forse fatto attendere anche troppo.

A partire dagli anni ’90, il maestro newyorkese si era allontanato dalla safe zone dello psicodramma metropolitano (genere che aveva contribuito a definire in team con Schrader e De Niro), addentrandosi nella revisione personale dei “generi” più classici del cinema, con un occhio inevitabile a quello della propria infanzia e formazione.

Nei decenni successivi alla consacrazione di Goodfellas, il cinema scorsesiano abbracciò dunque il melò di coppia, l’action-thriller, il film storico in costume e, a più riprese, perfino il biopic dai toni religiosi. Era tutto sommato solo questione di tempo prima che il regista arrivasse a coprire anche il più classico dei generi cinematografici americani: il film noir.

Nel 2009, finalmente oscarizzato e in fase di libertà totale, Scorsese puntò dunque il faro verso la sua personale rivisitazione del racconto di suspense. Un progetto apertamente commerciale, serenamente mirato alla stabilizzazione economica per la prima volta raggiunta negli anni dei blockbuster.

Shutter Island: genesi e spiegazione

Shutter Island si colloca diligentemente a metà strada tra l’omaggio cinephile per appassionati e il ricco spettacolo per le platee.

Nel film del 2009 c’è tutto ciò che ci si potrebbe aspettare da un giallo diretto dall’ultimo Martin Scorsese, con il suo bagaglio di omaggi e riferimenti: la decostruzione del narratore affidabile attraverso la frammentazione della percezione soggettiva deve ovviamente ad Hitchcock (e, indirettamente, agli eredi Polanski e De Palma); l’estetica messa in campo, gli interni come gli esterni, le lenti delle cineprese e le ombreggiature cromatiche rimandano ai lavori espressionisti e, di conseguenza, al noir degli anni ’40.

In quel periodo storico (che è ovviamente anche il setting del film), Hollywood colse la possibilità decisiva di “importare” gli anziani maestri del cinema dell’Europa Centrale, in fuga dalla Guerra e dal tesissimo clima politico del Vecchio Continente.

Con l’arrivo in USA di Fritz Lang, Robert Siodmak e Boris Ingster nacque dunque il noir come inteso oggi, attraverso la fusione del racconto hard-boiled letterario con l’estetica visuale dei vecchi maestri in fuga.

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La produzione americana di quel decennio è la struttura portante di Shutter Island, un film che ha la sua ragione più nella messa in scena che non nel racconto.

In questo convivono senza neanche nascondersi Le Catene della Colpa e La Donna Che Visse Due Volte, La Fiamma del Peccato e Vertigine (meno dichiarato ma fin troppo presente è invece The Nine Configuration di William Blatty).

Shutter Island, come sempre più spesso nei divertissment di Scorsese, è prima di tutto il gioco di un eterno ragazzino nel ridar vita ai film della sua infanzia.

Shutter Island e la psiche

shutter island

Proprio la sua natura di film-compendio di stilemi e rimandi alla Golden Age, compromettono forse l’elemento suspense di Shutter Island; lo spettatore appassionato di un certo cinema di dettagli e prospettive distorte non può mancare di decifrare il “gioco” ben prima dei 140 minuti messi in piedi dal maestro. Il film cala dunque il protagonista Leonardo DiCaprio in un labirinto di percorsi psicanalitici, incarnato nell’isola-manicomio del titolo.

Siamo nel dopoguerra, una paziente è scomparsa, e le ombre di traumi nascosti e segreti governativi pongono in paranoia le fragili menti dei reduci americani. La struttura a labirinto della località, i suoi freudiani padiglioni proibiti, sono il palcoscenico ideale per fare a pezzi la percezione e l’identità dell’agente federale Daniels, e dello spettatore disposto a stare al gioco.

Nel corso della pellicola la progressiva perdita di verosimiglianza nelle avventure del protagonista, affiancate da una serie di sequenze oniriche vagamente simboliche, arriveranno a mettere in dubbio l’affidabilità del narratore-Di Caprio (negli anni 2000 ancora a digiuno di personaggi ambigui o negativi).

Il percorso dei protagonisti conduce dunque al gran finale, nel l’ultra-metaforico faro dell’isola. Come la maggior parte dei luoghi mentali del manicomio, anche la torre di segnalazione si presenta come estensione di un tracciato psichico; in questo caso quello di un risveglio, un illuminazione, un riemergere alla luce della ragione di qualcosa di oscuro e rimosso.

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La spiegazione del finale di Shutter Island

shutter island 1

In cima alla torre Daniels non trova la Luce, ma Ben Kingsley, a rivelare quanto i più attenti avranno probabilmente indovinato dalla prima scena (Scorsese, senza barare, dissemina il suo film di “indizi”, fedele al gioco d’intelligenza che era il primo cinema hitchcockiano).

L’avventura poliziesca di Daniels si rivela dunque come un meccanismo di fuga, una costruzione mentale dello schizofrenico protagonista, paziente del manicomio travolto dal senso di colpa per l’uccisione della moglie folle. La sua pantomima è stata polanskianamente assecondata dai co-protagonisti, al fine di provare a condurlo verso un’illusoria guarigione.

Il film si chiude all’insegna del colpo di scena e del ribaltamento di prospettive, chiudendo il racconto come un apologo sulla natura del dolore e del senso di colpa.

Ma consapevolezza non è sinonimo di salvezza, e in antitesi al dogma freudiano, l’emergere del rimosso non porta un lieto fine. In un contro-finale notevole, un Daniels apparentemente irrecuperabile viene a malincuore condotto alla sala della lobotomia.

Attraverso un dialogo a metà, lasciato in sospeso, lo script di Laeta Kalogridis suggerisce in chiusura come la follia possa essere stata una scelta consapevole, e l’operazione finale una soluzione coscientemente voluta come liberazione dal peso della colpa.

Il film si chiude dunque con un Daniels sollevato, attraverso il metaforico suicidio dell’Io rappresentato dalla scelta della lobotomizzazione.

Una chiusura che più oscura non si può, in linea con il mood celebrato da Scorsese per l’intero film: quello del cinema nero, dove non c’è fuga o soluzione finale a ristabilire l’ordine, ma solo un vortice oscuro di dubbi e complotti, psicanalitici e sociali, a chiudersi sulla testa di un protagonista stritolato in primis da se stesso.

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