Mank | Recensione del nuovo film Netflix di David Fincher e Gary Oldman

L'ultima fatica del grande David Fincher è finalmente sbarcata su Netflix. Ecco la nostra recensione di Mank

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Gary Oldman in Mank
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Mank | La Hollywood d’oro è lastricata di cattive intenzioni

Atteso, chiacchierato, aprioristicamente in odore di capolavoro, Mank, nuovo film di David Fincher e Netflix, è finalmente arrivato sulla piattaforma italiana dopo aver esordito il 13 novembre negli Sati Uniti. Le voci americane ci avevano avvertito decretando indiscutibilmente la grande statura artistica dell’ultima fatica del regista di Seven. Canti di sirena o voci della verità? A nostro parere siamo nel mezzo, Mank è un’opera di assoluto valore che merita un giudizio intellettualmente onesto, proprio come il suo protagonista; una valutazione libera da forzate oggettivazioni.

Mank è un buon film, a tratti ottimo, ma è un capolavoro come in molti oltreoceano hanno ribadito? Forse no, ma in fondo che importa? Mank raggiunge il suo obiettivo egregiamente, sia sul piano visivo che narrativo; riesce ad omaggiare brillantemente il cinema classico della Hollywood d’oro donandoci una riproposizione stilistica che riprende gli stilemi (e le avanguardie) dell’epoca e centra con ammirevole efficacia l’obiettivo di restituire un messaggio chiaro, una riflessione (e ricostruzione) di un tempo fondamentale per la storia del Cinema.

Lo fa senza dimenticare nessuno, neppure l’ultimo degli uomini che attraverso il proprio ruolo ha danzato in quella grande illusione fatta di teatri di posa mentre il mondo cadeva, ancora una volta, in un baratro di inaudita violenza e oscurità. Per quanto ci delizi la famosa boutade di Woody Allen “È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione”, Mank ci conferma l’incontrovertibile verità che tutto ciò che è finzione si ispira ai meccanismi che regolano il nostro quotidiano; Hollywood è lo specchio del mondo e come esso è impantanato in una palude malsana, costretta a seguire le regole dell’esterno sacrificando e incrinando quella campana di vetro incantata, dove la neve è finta, gli uomini di più.

Herman J. Mankiewicz, o Don Chisciotte

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Gary Oldman in Mank

Mank ci narra una parte della vita di Herman J. Mankiewicz (un impeccabile Gary Oldman), scrittore brillante prestato al cinema con una tendenza all’autodistruzione e all’utopismo. Ma il film è principalmente il cinema americano che parla di se stesso, dei propri eccessi, cambiamenti, resurrezioni. All’alba della rivoluzione del sonoro, le parole si insidiano sempre di più nella scintillante Hollywood degli Studios. Guardare, ascoltare, interpretare; il cinema stava per diventare un mezzo totalizzante, un romantico affabulatore, un guascone tentatore, servivano solo dei Cyrano che sussurrassero i versi giusti. Mank è uno di questi.

Quello dello sceneggiatore, all’epoca, è un lavoro bistrattato, ancora in nuce, approdo di scrittori falliti, che non potendo imporsi in letteratura virano su porti meno prestigiosi come il cinema. Ma quello che questi pionieristici artisti ancora non sanno (o che faticano a prevedere) è che quel porto chiamato settima arte starà per diventare il medium che caratterizzerà un intero secolo. Gli sceneggiatori si riveleranno elementi chiave di questo successo, ruolo intuito proprio in quegli anni e tradotto nella nascita del primo sindacato, Writers Guild.

In questo contesto, Mank da pioniere diventerà ben presto un indesiderato a causa del suo fervente idealismo, a un cronico alcolismo e ad una schiettezza non comune, che lo porterà a scontrarsi con alcuni dei più grandi produttori di Hollywood come Irving Thalberg e Louis B. Mayer. L’ultima occasione arriva come un vento di rivoluzione; vento, questo, annunciato dal cane sciolto Orson Welles, un ventiquattrenne con carta bianca, mina vagante che deflagrerà compiendo il predetto sovvertimento dello status quo. Parte di questo rinnovamento si deve proprio a Mank, burattinaio celato dietro le quinte del film dei film: Quarto Potere.

Mank e Welles, mettono in opera una sorta di sconvolgimento all’interno degli stilemi classici dell’età d’oro di Hollywood, trasgredendo le ferree regole narrative e restituendo in questo modo un registro più alto del racconto, sia in termini di scrittura (la struttura della trama) sia in termini di ripresa e postproduzione (le focali corte, il montaggio, etc.). Insieme distruggono il tempio e, nel frattempo, ne edificano un altro.

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La narrazione è un unico grande cerchio, è come una girella alla cannella. Non è una linea retta che punta all’uscita più vicina. Non si può ritrarre l’intera vita di un uomo in due ore, ma solo provarne a darne un’impressione.

Contro i mulini dell’industria

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Mank, la celebre MGM ha un ruolo chiave nel film

La genesi di una delle più grandi opere cinematografiche si intreccia con la storia degli Stati Uniti, tra Grande depressione e minacce socialiste, ove gli scrittori sono già in odore di rosso e la lotta tra valori diversi sta iniziando a strutturarsi. Siamo nell’anticamera del maccartismo. La Hollywood come strumento di propaganda, produttori galoppini della politica; in questo contesto l’arte lotta con le unghie e con i denti fino ad imporsi all’inizio del nuovo decennio con il film che più di altri ha rappresentato l’essenza del cinema. L’artista strappa il monopolio della settima arte dalle mani della feroce industria, non abbandonandola, sia chiaro, ma ritrattando i termini dell’accordo tra le parti. Un “movimento” che avrà strascichi lunghissimi e che sfocerà in un totale rinnovamento dei rapporti di potere nei decenni successivi.

Passare da questa convinzione di Meyer: “È un’attività in cui l’acquirente con i soldi ottiene solo un ricordo. Ciò che compra appartiene ancora a chi lo ha venduto. È questa la vera magia del cinema e non permetta a nessuno di contestarlo” a questa di Mank:”Dobbiamo restare vigili…alle persone che siedono nell’ombra e lasciano la propria incredulità fuori dalla porta. Abbiamo una grande responsabilità”. Un cinema inteso come portatore su vasta scala di messaggi e che per questo motivo ha delle responsabilità nei confronti del pubblico, ingiustamente ingannato dall’uso propagandistico che la politica di quegli anni (e non solo) ha fatto della settima arte.

Come un don Chisciotte, Mank ci mostra la bellezza del sogno e dell’utopia dietro le sordide spoglie della realtà. Ci esalta vedere l’uomo a cavallo dell’ideale, ci distrugge vederlo cadere. Amaro e dolce è il destino di chi vive una sognante idea, solo amaro è il sapore che il film lascia in bocca allo spettatore, troppo addolorato per poter ancora seguire l’utopia di grandi uomini e costretto ad accettare l’ordine stabilito. Nemmeno l’apparente lieto finale potrà liberare l’opera da un profondo decadentismo.

Stile

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Mank

David Fincher non ha bisogno di dimostrare nulla eppure fa sempre piacere la conferma del talento. Mank è visivamente un’opera unica nel suo genere all’interno del panorama contemporaneo. Riesce a porre in parallelo la costruzione dell’immagine e la narrazione. La regia omaggia egregiamente la Hollywood del tempo — compresa la colonna sonora — riportando, come detto, sia le regole classiche che le innovazioni rappresentate da John Ford, Alfred Hitchcock e, come ovvio che sia, Orson Welles. Proprio il geniale regista è al centro della visione fincheriana; Mank risulta essere una lunga lettera d’amore a Quarto Potere e alla nostalgia, sentimento centrale dell’opera presa in riferimento e adottata da Fincher come una delle chiavi di volta per la comprensione estetica (e non solo) del film.

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Attraverso un montaggio che si alterna tra presente e flashback, che ci presentano il percorso lavorativo di Mank e lo status quo della Hollywood degli anni trenta, il regista mostra l’eredità di un’intera epoca canalizzandola attraverso una singola vita, quella di uno dei migliori uomini del tempo. Nostalgia, quindi, per l’uomo, per i tempi andati, per i tempi in cui c’era ancora la parvenza che le cose potessero cambiare. Infine, c’è una nostalgia da spettatore, colto incantato dinanzi a un cinema che non tornerà più ma consapevole di come il percorso lo abbia aiutato a diventare lo spettatore che è.

Lotta, compromessi, rinunce, scontri, politica, propaganda, onestà, denaro, industria; sono tutti aspetti di una lunga e travagliata corsa. Fincher ci dona questo, un punto di partenza per comprendere appieno come la storia sia piena di paragrafi fondamentali e ben collegati, il cui sfilacciamento porterebbe a una erronea panoramica di come andarono esattamente le cose. Il mondo è pieno di contraddizioni, il cinema anche.

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Mank (2020) Credit: Netflix

Sul piano prettamente estetico, la nostalgia si traduce in un bianco e nero morbido che cede a grandi ombre attraversate da accecanti luci. Da questo approccio ci si aspetterebbe un gran uso della pellicola — omaggiata comunque attraverso macchie e graffi sui fotogrammi — invece, Mank è stato girato in digitale con la versione monocromatica della RED MONSTRO; in sintonia con le direttive Netflix, da sempre restia all’uso della celluloide, per approfondire chiedere a Spike Lee.

Il bianco e nero, quindi, non è stato ottenuto in post produzione bensì direttamente in ripresa donando una qualità di immagine notevole e una patina argentata degna dei classici. Il vantaggio lo ritroviamo nel fatto che la versione monochrome non prevede filtri colorati e pertanto il sensore viene investito più efficacemente dalla luce, risultando più sensibile e donando immagini più nitide e con più risoluzione. Inoltre, senza i filtri il “peso” dell’immagine è più leggero dato che non deve estrapolare anche le informazioni dei colori. Il risultato è ammaliante; come detto in patria, Mank è un film che parla di classici essendo egli stesso un classico.

Conclusioni

Mank è un’opera solida con un messaggio ben definito che rinuncia alla propria grandezza assoluta — per quanto pregno di carattere resta un biopic a tratti ordinario— per ribadirci, ancora una volta, la grandezza del cinema e che Quarto Potere è più di un semplice film, è più di una analisi della realtà, è più di un innovativo esercizio di stile. Ci chiarisce il perché l’opera di Welles è il film più importante di sempre e di riflesso ci restituisce un uomo sconosciuto ai più, un’epoca ormai dimenticata, un cinema ancora bambino, preda di manie adulte come il denaro, la politica, l’avidità e il potere. Mank ci racconta qualcosa di grandioso e decadente allo stesso tempo risultando per molti aspetti profondamente contemporaneo. Come allora anche oggi il cinema è chiamato al cambiamento, alla sovversione, al rinnovamento. Per attuarlo servono i grandi artisti, proprio come Herman J. Mankiewicz.

Beh, questa, mio caro amico, è Hollywood

ORSON WELLES

Mank: Trailer

Mank: Scheda tecnica

Lingua originaleinglese
Paese di produzioneStati Uniti d’America
Anno2020
Durata131 minuti
Dati tecniciB/N
rapporto: 2,20.1
Generedrammatico, biografico
RegiaDavid Fincher
SceneggiaturaJack Fincher
ProduttoreCeán Chaffin, Eric Roth, David Fincher, Douglas Urbanski
Casa di produzioneNetflix
Distribuzione in italianoNetflix
FotografiaErik Messerschmidt
MontaggioKirk Baxter
MusicheTrent Reznor, Atticus Ross
ScenografiaDonald Graham Burt

Mank: Cast

  • Gary Oldman: Herman J. Mankiewicz
  • Amanda Seyfried: Marion Davies
  • Lily Collins: Rita Alexander
  • Charles Dance: William Randolph Hearst
  • Arliss Howard: Louis B. Mayer
  • Tom Pelphrey: Joseph L. Mankiewicz
  • Sam Troughton: John Houseman
  • Ferdinand Kingsley: Irving Thalberg
  • Tuppence Middleton: Sara Mankiewicz
  • Tom Burke: Orson Welles
  • Joseph Cross: Charles Lederer
  • Jamie McShane: Shelly Metcalf
  • Toby Leonard Moore: David O. Selznick
  • Leven Rambin: Eve

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