Death Proof è meglio di Django Unchained, vi spieghiamo perchè

La nostra classifica dedicata ai film di Quentin Tarantino ha suscitato qualche polemica in merito alle posizioni di Death Proof e Django. Ecco le ragioni della nostra decisione

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Kurt Russell in Death Proof e Jamie Foxx in Django Unchained
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Piccola premessa prima della sfida tra Death Proof e Django

Nonostante il passare degli anni, le discussioni, le classifiche e gli scontri critici sui film di Quentin Tarantino permangono e si rinnovano ad ogni uscita di un suo film.

Alcuni glorificano il folgorante esordio da Reservoir Dogs (Le Iene) e i primissimi crime-movie di carriera, altri esaltano gli anni di Jackie Brown (una pazzesca incursione registica di Tarantino nella blaxploitation anni settanta), del Pulp (Fiction) e della sua grande consacrazione: è impossibile negare difatti a un’opera come questa l’importanza e l’influenza che ha avuto su tutta la comunicazione contemporanea.

C’è chi invece osanna e esalta la rinascita del regista attraverso i due capitoli di Kill Bill (considerabili come un unico film), summa teorica del cinema di Tarantino, tramite i quali egli porta a compimento il suo personale processo di creazione di un universo autonomo dove tutto è cinematografico, dominato da leggi proprie. Abbandonando le già residue tracce di appartenenza al genere, il regista mescola vari stili cinematografici completamente diversi tra loro, trasformandoli in qualcosa di nuovo, di mutevole.

Tarantino, regista di una cultura cinematografica poliedrica e sconfinata, ripesca a piene mani elementi dal cinema orientale di arti marziali degli Anni Settanta, dal cinema di Hong Kong e dagli spaghetti western, ed è come se vi inserisse tutte le sue passioni giovanili, rinvigorendole con il suo stile unico, adrenalinico, eccessivo, imprevedibile e dissacrante.

Questo stile non è certo privo di trovate geniali: dalla parte anime alle straordinarie musiche sempre azzeccate, cosi come la potenza visiva di ogni frame che scorre nello schermo, la messinscena disomogenea, iperdinamica e fumettosa, in grado di mutare continuamente pelle rimanendo tuttavia la stessa cosa.

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Death Proof Vs Django

Dopo una doverosa introduzione riepilogativa (di risapute ovvietà) sui primi film realizzati da Quentin Tarantino siamo giunti al punto cruciale: perché per noi il sottovalutato Death Proof (Grindhuose – A prova di morte, stasera su Italia 2 alle 21:15) è meglio dell’idolatrato Django Unchained?

La necessità di spiegare il nostro punto di vista nasce dalle reazioni suscitate dalla nostra classifica dei film del grande regista, in cui Grindhouse precede l’opera con protagonista Jamie Foxx. Procediamo per gradi:

Death Proof

Ringuainata la katana, un Tarantino sempre più cinefilo (e compiaciuto), nella più totale libertà espressiva, porta sugli schermi il folle Death Proof, un omaggio al cinema di genere degli anni ’70, quando in America con un solo biglietto si potevano vedere due film (solitamente horror o di azione) all’interno di un drive-in, o nelle proiezioni cinematografiche mattutine.

In Death Proof, il regista riversa molti elementi della sua poetica sino al parossismo, trasformando l’omaggio ai film del circuito Grindhouse in un omaggio a se stesso (superando, come spesso gli accade, il modello di riferimento). Una valanga di citazioni, mai fini a se stesse e perfettamente integrate in un tessuto narrativo, che fanno del metacinema e dell’omaggio una vera ragion d’essere oltre che uno stile personale.

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Una carrellata senza freni di tutto ciò che più ha influenzato il regista del Tennessee nei suoi trascorsi da fagocitatore di video a noleggio (dai road movie ai sexploitation, fino agli horror).

Si filma addosso e ci dona la rinascita di Kurt Russel (mai stato così pazzo e cattivo e sicuramente uno dei punti di forza del film), e ripropone inoltre tutti gli errori tipici del genere, replicandone i modelli con tanto di buchi di sceneggiatura, fotografia graffiata e errori di montaggio, naturalmente creati ad hoc.

Ma è solo la superficie; grattando sotto la patina da B-movie affiora limpido l’amore per la nouvelle vague (tempi morti, dialoghi interminabili e indifferenza per la narrazione).

Ma Death Proof è anche Prequel e Sequel nello stesso film, con l’assidua presenza di dialoghi vuoti: la parola, il verbo, l’estenuante chiacchiericcio sul nulla di sostanziale, atto a creare solo la tensione emotiva e il pathos per l’entrata in scena dell’immenso personaggio di Stuntman Mike.

Tarantino però non si ferma e si inventa l’inganno, presentandoci nella prima parte il suo protagonista come un arguto genio del crimine, per distruggerlo poi nella seconda e mostrarcelo per quello che è realmente in tutto il suo patetismo.

E infine l’irrefrenabile inseguimento, la celebrazione del rischio con una sequenza al cardiopalma, fatta girare alla spericolata Zoe Bell (vera stuntgirl), che per l’occasione Tarantino fa recitare assieme alle altre ragazze.

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Django Unchained

Che cosa manca invece ad un film come Django Unchained per considerarlo “minore” di Death Proof nella filmografia di Quentin Tarantino? In verità, le critiche che gli si possono muovere sembrano ben poche: Django Unchained rimane a tutti gli effetti il film di un genio, un maestro indiscusso, sia in termini di regia che di puro intrattenimento.

Tarantino si cimenta nello Spaghetti Western a lui tanto caro, e lo fa nella più totale libertà autoriale. Omaggia il Sergio considerato “minore” del Western all’italiana, ma in maniera esclusivamente figurativa (Unchained ha ben poco a che vedere con il Django dell’immenso Corbucci).

Ritroviamo qui il solito (auto)ipercitazionismo cinefilo, le esplosioni (letterali) di ultraviolenza e la verbosità vuota ed (in)significante. Amplifica la ri-lettura razziale, e, come nel precedente (e migliore) Inglourious Basterds (Bastardi senza Gloria), Tarantino non permette alla trama di sottomettersi alla storia passata, senza nessuna parvenza di realismo storico.

Così facendo, gli anacronismi si sprecano (Alexandre Dumas nero è la punta di un iceberg molto più grosso sui discorsi anti-razziali perpetuati dal regista nel film, ancor più della sequenza spassosissima del Ku Klux Klan), come già visto nella mattanza nazista del cinema parigino gestito da Shosanna Dreyfus/Mélanie Laurent, che concludeva la storia con la morte di Adolf Hitler e Joseph Goebbels, letteralmente crivellati da colpi di mitra.

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Ed è forse questo il difetto più grosso di Django: elementi già visti e riproposti, una prevedibile e scontata vicenda di vendetta e redenzione (personale ossessione di Tarantino), unita ad una statica linearità e ad un’impersonalità tale che il regista sembra divenire una brutta copia di se stesso.

L’omaggio di Tarantino al western nostrano prende vita infatti attraverso l’espressione di un manierismo pulp bambinesco e sterilmente ipercitazionista (sin dai titoli di testa del Django originale) che, sopratutto nella seconda parte del film, diventa invadente, oltre che stucchevole.

Le virtù, al contrario, si manifestano ancora nel compiacimento con cui egli sparge il sangue della vendetta (seppur ripetitivo, senza senso, ed incontrollato nella ricerca dello Splatter direttamente da From Dusk till Dawn), nei dialoghi irriverenti (nonostante siano prolissi e meno incisivi dei film precedenti) e nella direzione degli attori: dal magnifico Waltz (protagonista involontario che oscura totalmente Foxx; ma anche qui, movenze, linguaggio ed espressività riportano inevitabilmente al precedente Hans Landa di Inglourious Basterds), a un grande Leonardo Di Caprio decisamente sopra le righe e al solito Samuel L. Jackson, oltre che al reclutamento di vecchie stars, come ad esempio Tom Wopat di Hazzard.

Ma il film, per quanto irresistibile e divertente, diventa con il passare dei minuti sempre più fine a se stesso. Non sorprende infatti come, una volta morto il vero protagonista “involontario” (il dottor Schulzt), il film prende la piega che ci si aspetta, o almeno quella che non ci si aspetta da un regista come Quentin Tarantino, proseguendo spedito con Foxx su prevedibili binari fino all’esplosivo lieto fine.

Il ballo del cavallo post-deflagrazione di Candyland chiude la vittoria con una tale infantilità da sembrare, per la prima volta, che il buon Tarantino si stia ridendo addosso sul serio.

(Un ringraziamento a Stefano Caselli per la conclusione)

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