I fratelli Coen e il cinema postmoderno

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Ethan Coen, left, and Joel Coen won four Academy Awards during the 80th annual Academy Awards at the Kodak Theatre in Hollywood, California, Sunday, February 24, 2008. (Daniel A, Anderson/Orange County Register/MCT)
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I fratelli Coen risultano essere tra le personalità di spicco della cinematografia indipendente americana. Incarnando al meglio lo spirito di uno scarto generazionale.

Joel e Ethan Coen provenienti da una famiglia ebraica del mid-west americano, nascono e crescono a cavallo tra due epoche. Figli del secondo dopoguerra, vivono sulla loro pelle sconvolgimenti socio-culturali dovuti a trasformazioni in ambito politico—economico e tecnologico. Proiettando le proprie coscienze verso la cosiddetta beat-generation. Mantenendo, nell’evoluzione del proprio pensiero e della propria poetica, l’eredità della cultura hippie. La quale si accompagna, tuttavia, ad una logica midcult e una prestigiosa formazione accademica ricevuta. Corsi di cinema presso la New York University per Joel e una laurea in filosofia a Princeton, con tesi su Wittgenstein, per Ethan.

Alla luce di tale prospettiva si può meglio cogliere la visione dei due fratelli. Profondamente legata a intenzionalità espressive filosofiche nonché sociali e culturali, alla quale vogliono dar corpo attraverso la loro filmografia.

Dunque, due personalità in perfetto equilibrio tra due correnti di pensiero, di modi e stili di vita. Tese tra il passato e il presente, tra la tradizione e l’innovazione. A ciò bisogna aggiungere la conoscenza con Sam Raimi e Barry Sonnenfeld. Tutti con la stessa passione per il cinema e la stessa volontà di crearne una nuova forma con nuove modalità, libera dai vincoli del passato. Un passato, ciò nonostante, mai del tutto ripudiato o abbandonato, ma anzi, di cui si avverte il profondo influsso e fascinazione sui due fratelli.

Come tutti i grandi cineasti, i Coen sono prima di tutto grandi appassionati di cinema. Cinefili onnivori, che hanno fruito e goduto della visione di tutto il cinema classico. Avvertendo, tuttavia, l’esigenza di svecchiarlo, potremmo dire, per ricollocarlo all’interno di una diversa prospettiva storica, di cui il cinema può e deve farsi portavoce. Ed è proprio con gli amici Raimi e Sonnenfeld che iniziano a muovere i primi passi in questo mondo, realizzando i primi progetti amatoriali.

Il maggior risultato di tale sodalizio è sicuramente La casa, diretto da Raimi nel 1982.

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Il prodotto più energetico tra gli esperimenti del gruppo, pregno di tutta una cultura pulp e horror precedente. Che presto diventa una pellicola di culto negli ambienti cinefili di tutto il mondo. Alla realizzazione de La casa i Coen hanno contribuito profondamente, comparendo tra i credits.

Successivamente lavorano, da soli, al loro primo lungometraggio Blood simple. Un film che risente a pieno dello spirito degli anni ’80 e della moda, di quello che potremmo definire una “noir revival”. Di fatto anche quest’opera si evolve in una cupa atmosfera noir, con tratti da detective movie e thriller e qualche cenno all’horror di John Carpenter, “Halloween” del 1978. Un omaggio a James Cain e Dashiell Hammett, che richiama all’attenzione dello spettatore un’opera hitchcockiana che non proviene da Hitchcock.

Blood simple può essere considerata tra le pellicole più esemplificative della filmografia dei fratelli Coen, presentandone già gli elementi caratteristici.

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Il risultato finale è una commistione ben amalgamata di generi e personaggi presi dalla tradizione cinematografica. Ricombinati ora in maniera del tutto nuova, destabilizzando le fondamenta e la percezione di chi guarda. Il quale, disorientato, si ritrova davanti ad uno spettacolo familiare e straniante allo stesso tempo, da cui deriva il perturbante coeniano. Blood simple è un microcosmo di grande fascino, ma privo di senso, in cui i personaggi si muovono disperati e incapaci di vedere al di là di sé stessi, invischiati in una costruzione narrativa esageratamente complessa.

Ed è proprio questa una delle caratteristiche basilari del modus operandi del processo creativo della scrittura dei Coen. Storie intricate, costruite come castelli di carte costellate da colpi di scene e volgimenti, tuttavia minati alla base, frutto di inganni o equivoci che muovono le fila delle azioni dei protagonisti. Le sceneggiature sono elaborate come mirabolanti voli pindarici i cui presupposti tuttavia si rivelano fallaci o falsi, finendo per crollare su stessi. Ciò tuttavia risulta chiaramente funzionale alla rappresentazione di un universo definito come postmoderno. Popolato da figure in crisi in un mondo in crisi ormai privo di certezze e logica.

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I migliori casi di studio in tal senso sono sicuramente due dei film di maggior successo e diventati cult del lavoro dei fratelli Coen: Fargo e Il grande Lebowski.

Fargo è il film che inaugura una nuova stagione creativa per i fratelli, nonché segna il grande successo di pubblico, al cui titolo sarà legato il nome dei due registi. Fargo rappresenta in un certo senso un ritorno a casa, nelle vaste e desolate pianure innevate del midwest. Nel quale si confrontano e si scontrano figure antitetiche e alienate, le prime mosse da intenti cinici ed egoisti. Dovranno fare i conti con lo sceriffo della città, interpretata da Frances McDormand. È una figura di donna nuova messa in scena, matriarca, protettrice della propria comunità. Che con la sua femminilità (alludiamo alla sua condizione di donna incinta) prevarica la mascolinità più bruta dei due criminali. Una mascolinità quindi, inadeguata e incapace, in piena dissoluzione nel più pieno spirito postmoderno.

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Diametralmente opposto è invece Il grande Lebowski ambientato nella soleggiata California. Vede il Drugo cimentarsi nel difficilissimo ruolo di investigatore, che per nulla gli compete, alle prese con un caso che si rivelerà essere, non solo nato da un equivoco ma anche, ingannevole. Jeff Bridges interpreta qui uno dei ruoli più iconici dell’intera cinematografia mondiale, il personaggio simbolo dell’universo coeniano e postmoderno. Un uomo privo di interessi che guarda con distacco i personaggi attorno a lui in un mondo, che egli stesso percepisce, in crisi.

Lebowski è un outcast, un’esistenzialista implicito, che nonostante tutto porta avanti le proprie battaglie nel suo piccolo quotidiano. Contrapposto alle altre figure di uomini e donne che si affanno e si consumano inseguendo le proprie ossessioni e i propri conflitti (QUI un approfondimento). Eppure, sono accomunati per essere i residui di un mondo ormai morto, che si trascina avanti verso il futuro senza mai abbandonare i propri retaggi. Lebowski è un hippie, come Walter un reduce del Vietnam, irriducibilmente anacronistici.

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Diverso sotto un certo punto di vista appare “L’uomo che non c’era” decisamente più cupo, desolante, disperato e malinconico. Il quale, in questa sede, teniamo a considerare il vero capolavoro della filmografia coeniana.

Volendo tralasciare la straordinaria fotografia di Roger Deakins e l’incredibile interpretazione di Billy Bob Thorton ci soffermiamo sull’aspetto narrativo. Ed Crane, il personaggio messo in scena, è effettivamente un uomo che non c’è, assente metaforicamente, passivamente accetta e lascia compiere l’azione su di lui. L’opera più raffinata dei Coen è anche quella che con maggior forza e accanimento vuole far emergere, mettendolo in scena, il lato oscuro e represso dell’uomo in crisi nella società postmoderna. Un saggio sull’angoscia, è la pellicola dei Coen che più si presta ad una lettura ed interpretazione filosofica, alla Kierkegaard potremmo dire. Volendo mettere al centro del suo racconto la disperazione e la solitudine di uomo sconfitto e incapace di reagire, in piena crisi esistenzialista (QUI un approfondimento).

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Per quanto apparentemente caso atipico all’interno dell’universo coeniano come non citare  Non è un paese per vecchi. Uno dei film che ha riscosso maggior successo al livello internazionale. Questa è sicuramente una delle pellicole più ostiche e cruente dei fratelli cineasti, rispettando sempre fedelmente l’intenzionalità rappresentativa antropologica. Il deserto del Texas, luogo d’ambientazione del film, è popolato da creature profondamente sole e solitarie, silenziose e ciniche, stoiche nel portare a termine i propri obiettivi, in lotta per la sopravvivenza. Unica figura che si contrappone, in un certo senso, è quella dello sceriffo Bell. La cui voce risuona facendo da narratore e commentatore alla storia e al decadentismo morale e materiale che attanaglia il paese. Sul quale incombe un presente meramente funzionale (QUI un approfondimento).

Altra caratteristica del processo creativo dei Coen, piuttosto ricorrente, è proprio quella di ricorrere ad una voice-over. Alla quale è affidata la narrazione degli eventi, che si scoprirà appartenere ad uno dei personaggi dello stesso film. Facendo coincidere universo diegetico e contesto extra-diegetico.

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Ultimo film sul quale decidiamo di soffermarci, per significativa importanza, è A serious man. Per quanto il più geometrico ed il più enigmatico, rappresenta la chiusura dei conti con il passato e anche quello più compiuto. Un condensato di tutto il cinema dei fratelli Coen, all’interno del quale sono racchiuse tutte le volontà espressive e le influenze culturali. È sicuramente l’opera più personale e sentita che meglio esprime la loro formazione e la loro estrazione culturale di origine ebraica. Inoltre, è anche quello che può essere considerato maggiormente “catastrofico” e disfattista, sempre da una prospettiva filosofica postmoderna.

Larry Gopnik è un uomo moderno, uno degli ultimi uomini moderni, che si ritrova, suo malgrado, a dover affrontare personaggi e situazioni assurde in un mondo ormai sulla via del cambiamento. Una situazione ai limiti dell’assurdo, quasi kafkiana, quella che sembra opprimere fino a schiacciare il protagonista. Un racconto feroce e grottesco, doloroso e profondamente umano, di un uomo perfettamente integrato nella sua comunità e quindi più esposto e incapace di affrontare le insidie che provengono dall’interno della stessa comunità. Mostrando tutta la precarietà e la fallacia dei presupposti logici della società moderna.

A serious man è un racconto perfetto sulla solitudine esistenzialista dell’individuo contemporaneo, alle prese con il silenzio di Dio.

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In conclusione, possiamo affermare con forza che i fratelli Coen sono due dei più interessanti autori cinematografi.

I quali hanno saputo realizzare una filmografia elaborata e raffinata, capace di tendere un occhio al passato e uno al presente, riformulando elementi tradizionale, in maniera quanto più iconografica. Consci, tra l’altro, del potere della decostruzione come principio creativo e narrativo. Esprimendo attraverso il proprio cinema una visione coerente, portando avanti un discorso filosofico sulla condizione umana nella società contemporanea.

Ciò nonostante aggettivare i Coen come postmoderni sarebbe riduttivo e si farebbe torto alla loro complessità, facendone una mera questione di stile.

Postmoderno è il mondo che essi raccontano, postmoderni sono i personaggi e le vicende nella quali sono invischiati, risultando un riflesso del modo di stare al mondo. La filmografia dei Coen è un viaggio a tappe lungo la storia dell’America. Riscoprendo passaggi fondamentali del ‘900 e sperimentando la fusione di genere, decostruendoli. Per portare sullo schermo semplicemente uomini incapaci di trovare il proprio posto nel mondo, alle prese con la storia. Ed è la storia nel suo insieme, il voler mettere in scena qualcosa, estrapolandone il senso, l’intenzione dei due cineasti.