Narcos: Messico|Recensione della seconda stagione

Narcos: Messico, recensione della seconda stagione pubblicata su Netflix il 13 febbraio.

Narcos: Messico
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Narcos: Messico prosegue il racconto dei signori della droga

Negli ultimi anni film e serie tv sul narcotraffico si sono moltiplicate come mai prima, ed il merito di questo inaspettato revival è sicuramente di Narcos, vero e proprio instant classic della cultura pop contemporanea. E in quanto tale è già sedimentato nell’immaginario collettivo, spasmodicamente curioso verso le prime uscite, decisamente più indifferente verso l’ultima stagione di Narcos: Messico pubblicata lo scorso 13 febbraio. Un’accoglienza tiepida verso quello che nelle prime battute era un vero e proprio fenomeno di massa, ma che sicuramente continua a meritare la visione e a confermarsi uno dei prodotti di punta di Netflix.

Così la seconda serie di episodi di Narcos: Messico è costretta a confrontarsi con due problemi. Sicuramente dietro la disaffezione del pubblico c’è lo spettro della ridondanza. Nonostante il continuum narrativo della serie, la ripetizione pedissequa di certi schemi visivi e narrativi costringe a chiedersi cosa ancora abbia da dire un’opera del genere. Inoltre questa seconda stagione deve misurarsi con il livello straordinario della prima stagione, e se riguardo al primo punto qualsiasi spettatore attento potrà apprezzare le variazioni degli autori nell’approccio al soggetto, su quest’ultimo la seconda stagione probabilmente esce sconfitta.

Narcos: Messico e la capacità di rinnovarsi

Allo strabordante e totale protagonismo di Pablo Escobar-Wagner Moura delle prime due stagioni, si sostituì nella terza un mosaico di nemici tutti egualmente caratterizzati. Nella prima stagione di Narcos Messico il sistema dei personaggi è stato imperniato tutto intorno al costante confronto dialettico tra Kiki Camarena e Félix Gallardo. Questa seconda stagione è stata quindi l’occasione per sperimentare ulteriormente sulla forma e la scrittura. Ciò che emerge questa volta è un affresco come mai prima caotico e stratificato, fatto di molteplici sottotrame che restituiscono finalmente l’articolazione delle gerarchie del narcotraffico: un approccio decisamente più affine ai grandi gangster movie della storia del cinema.

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Narcos: Messico

E ciò si riflette anche sulle ambientazioni, esplorate con montaggi nevrotici e spesso eccessivamente discontinui. Il voice-over si fa quindi più didascalico, per chiarire alcuni passaggi, e si rendono necessari titoli per chiarire di volta in volta dove si stessero svolgendo gli eventi. Torna alla mente l’ultimo fallimentare lavoro di Olivier Assayas, Wasp Network, benché la forma seriale si presti sicuramente meglio a certe scelte di scrittura.

Allo stesso tempo sembrano certe volte riecheggiare spunti dalle grandi regie scorsesiane di Casino e Goodfellas. Il brulicare di comprimari e trame secondarie spezza la narrazione della grande mafia messicana in un quadro complesso e vitalistico. Esperimento però riuscito a metà; coraggioso e ambizioso ma eccessivamente confusionario e spesso inutilmente prolisso su alcuni personaggi che non si rivelano poi realmente caratterizzati.

Félix si troverà nella parabola discendente

Il magnetico antagonista della prima stagione, il re del narcotraffico messicano, vivrà un declino inarrestabile. L’assassinio dell’agente Camarena ha portato ad un dispiegamento di forze di polizia pronte ad usare qualsiasi metodo, ed iniziano ad emergere con prepotenza gli eredi al trono, tra cui un certo Joaquín “El Chapo” Guzmán. Senza rinunciare al fascino gelido della sua mimica facciale, Diego Luna restituisce il lato umano del criminale con i giorni contati. L’assenza di un reale confronto con la sua controparte ne svilisce però la caratterizzazione. La sua nemesi d’elezione, Michael Peña, è sostituita da un ottimo Scoot NcNairy, voce narrante della serie, che tuttavia non porta in scena lo stesso scontro serrato della prima stagione.

Narcos: Messico

La battaglia infatti non è più tra i due soli fronti del bene e del male. Si miscelano vorticosamente tante altre forze fino a dissipare quella blurred line tra il fine e i mezzi. Così come mai prima in Narcos la sfera politica è stata approfondita nei suoi corrotti rapporti con i trafficanti. Un elemento, certo, sempre presente sullo sfondo dell’ascesa e declino dei sovrani della droga, ma che negli splendidi episodi 8 e 9 assurge a protagonista assoluto delle vicende. Sicuramente vetta della stagione e tra le puntate più belle dell’intera serie, caratterizzate da un uso mirabile del montaggio parallelo e dell’antifrasi tra musica e immagini.

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Narcos: Messico e la prossima era del narcotraffico

Nel resto della serie lo stile registico sembra cedere all’immediatezza dell’oggettività. La prima stagione di Narcos: Messico mostrava una matura plasticità nella composizione dell’inquadratura. In questo caso, adeguandosi al ritmo frenetico della narrazione frammentata, il registro è molto più affine all’azione che alla contemplazione. E in questo, dove la prima stagione sceglieva l’unità di tempo e azione con long-take e piani sequenza, come nell’apertura dell’episodio 8 o nel sogno di Kiki, la seconda stagione si esprime continuamente attraverso un montaggio declinato alle più diverse esigenze sceniche e narrative. Alla prima stagione guarda però attraverso alcuni leitmotiv visivi, specie nella palette dei colori, ma anche tramite altri rimandi. Tra questi, le inquadrature che spesso osservano Félix fuori dal finestrino di un automobile.

Complessivamente, questa seconda stagione di Narcos: Messico sembra quasi un ampio arco di preparazione della saga di El Chapo che il tramonto di Félix Gallardo . Visto in questo senso si può cogliere quasi un modello di tensione crescente che verrà poi sviluppato adeguatamente. Altrimenti, vista solo come parentesi finale dell’era di El Padrino, perde decisamente di mordente. Ma come guardarla spetta solo allo spettatore, che sicuramente troverà una visione come sempre molto soddisfacente, forse meno incisiva rispetto alle narrazioni precedenti.

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