Californication: Crocevia del pop-rock – Rileggere la pietra angolare dei RHCP

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Californication compie vent’anni.

Un disco che spacca a metà la carriera dei peperoncini e la loro fan base. Per alcuni capolavoro immortale, per altri ultimo disco memorabile della band, per altri ancora inizio di un declino che ormai considerano inesorabile all’interno della loro discografia. Diventa fondamentale allora riscoprire questo disco, per comprendere meglio il percorso di una band ormai nell’altra metà della parabola dell’artista. Una sorta di bivio nello stile della band, che iniziò ad imperniarsi su linguaggi più leggeri.

Californication si può considerare infatti il primo lavoro ad impiegare gli stilemi di un certo pop-rock che diventerà poi sistematico all’interno della loro produzione. Questo l’ha reso certamente accessibile ed acclamato presso il grande pubblico, che spesso riconosce la band solo per brani come la title track del disco, che ne ha decretato il successo su larga scala. D’altro canto però ciò conferma che nell’immaginario che la collettività si è creata del gruppo si tende ad associarli ad un certo tipo di sonorità, che è quello di brani come Otherside o Scar Tissue.

Non si vuole riflettere sul valore oggettivo di Californication.

Sarebbe superfluo parlare del disco come se fosse uscito ora, nonché limitante non coglierlo come tappa di un percorso. Guardare al prima e al dopo di questo disco è il miglior modo per celebrarlo. Un disco che ha due facce, due risvolti sociali, incrocio di due strade che vengono da mondi lontani: quella del funk e quella del pop.

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Dieci anni dopo Mother’s Milk, con Blood Sugar Sex Magik e One Hot Minute appena dietro alle spalle, i Red Hot giungono all’espressione più matura di quel funk in cui si sono formati e sviluppati. Già nel disco con Navarro si poteva rintracciare un rinnovato gusto negli arrangiamenti e nelle sonorità, che in Californication giunge alla massima elaborazione, pur discostandosi dall’heavy funk di One Hot Minute. Brani come Around the World, I Like Dirt o Purple Stain non presentano alcuna traccia del funk manieristico e ancora grezzo che caratterizzò gli esordi e, in misura consistente, anche Blood Sugar Sex Magik.

In questi brani si ravvisa quindi già quella tendenza alla sperimentazione sonora che sarebbe esplosa compiutamente solo nel loro lavoro successivo, By the Way. Sperimentazione che li porta a declinare la loro musica nei vari indirizzi del rock. Non c’è da stupirsi quindi se troviamo la feroce Get on Top incastonata tra le due delicatissime perle di Otherside e Californication, oppure di ascoltare l’effimera Road Trippin’ in chiusura di un disco che poco prima risuonava fulmineo su Right on Time.

Troviamo quindi un linguaggio più pop, ma estremamente raffinato.

Porcelain è senza dubbio uno dei maggiori esempi. Una vera e propria poesia, che Kiedis scrisse per una ragazza conosciuta a Los Angeles nel 1998, sostenuta in maniera estremamente elegante. Gli interventi di Frusciante trovano un’armonia con la linea di basso di Flea raramente replicata, ed insieme a percussioni ridotte al minimo donano protagonismo alla voce, ormai pienamente sotto controllo, di Kiedis. Anche la stessa Road Trippin‘, che celebra il ritorno di Frusciante, dimostra una notevole ricercatezza, nell’assenza, giustificata, di Chad, e nell’inserimento degli archi nella tessitura strumentale.

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In generale i testi si fanno più introspettivi ed ispirati, anche rispetto alle meravigliose ballad dei lavori precedenti. Le strutture strofiche su cui si appoggiano le narrazioni di Californication sono tutte accompagnate da strutture musicali minimaliste, ma estremamente riuscite. L’intro di basso e chitarra di Californication è ormai mitologia, allo stesso modo i power chord su cui inizia Otherside o il riff di Scar Tissue.

Nella misura in cui rappresenta un pregio, Californication è due dischi in uno.

Esperimento che avrebbero compiuto in maniera meno celata con Jupiter e Mars, le due sezioni di Stadium Arcadium, che è forse davvero l’ultimo disco prima del declino. L’ipertrofica antologia musicale di Stadium Arcadium, in cui si trovano stili e idee della più diversa natura, non è altro che l’espressione all’ennesima potenza di una dialettica sonora iniziata da Californication. Così il postremo saluto di Frusciante sul roboante solo di Wet Sand non è solo un commiato dalla band, ma anche dal funk, dall’identità sonora di un pezzo di storia del rock. E difatti, da lì in poi, i Red Hot avrebbero ceduto sempre più alla tentazione di un pop più accessibile, che esce sconfitto e svilito dall’assenza della sua energica controparte.

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Questo rappresenta Californication nel percorso della band. Un manifesto di una precisa volontà musicale che ha caratterizzato una produzione di qualità, ma che purtroppo ad un certo punto, per i fan storici, deve aver perso il suo equilibrio fondante. Complice anche l’ingresso nella formazione stabile di Klinghoffer, chitarrista di tutt’altra estrazione, i Red Hot sembrano essere stati fagocitati dal sound che li ha identificati presso il grande pubblico, ma che non ne ha fatto la fortuna presso gli affezionati storici. Perciò Californication non può essere visto ne come l’ultimo dei primi, ne come primo degli ultimi, come molti lo reputano. Invece è il cardine di un’intera epoca, titanico nella sua variegata ma coerente ricchezza. E che parla di una band che oggi, con The Getaway, sembra aver operato una scelta ben precisa: ai fan l’ardua sentenza.

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