Red Hot Chili Peppers: pregi e difetti del live alle Piramidi

Red Hot Chili Peppers
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Abbiamo visto il live in streaming, e ci siamo fatti un’idea su cosa ci è piaciuto e cosa no.

Suonare di fronte alle spettacolari Piramidi di Giza è senza dubbi una delle più suggestive prospettive che si possano avere per un live. Infatti erano là dietro come co-protagoniste dell’intero spettacolo, uno sfondo unico. Ma i Red Hot Chili Peppers sono riusciti a fare onore a tutta questa maestosità?

Parliamoci chiaro, vogliamo evitare di elencare cose impossibili o banalità. Storicamente la band fa leva sul devastante duo Chad Smith e Flea, su Anthony Kiedis che è un ottimo performer ma non certamente precisissimo con la voce e sulla grande carica che hanno sul palco. Puntare il dito sulle imperfezioni vocali di Kiedis sarebbe quindi inutile, non è né una novità né un’esclusiva di questo live.

Una scenografia che sussurra da sola.

L’intento della scenografia minimale e piramidale è sicuramente quello di rendere protagoniste le tre leggendarie strutture sullo sfondo. L’idea di base quindi è sicuramente buona però diventa poi un’arma a doppio taglio durante la parte live, in cui qualche luce o effetto più dedicato avrebbe senza dubbi indirizzato l’attenzione su uno o più componenti oppure aumentato la spettacolarità del tutto. Per quanto incredibile per il pubblico (inaspettatamente molto fiacco) le riprese streaming hanno perso effetto quando le Piramidi non erano inquadrate, praticamente per la maggior parte del tempo.

Facile parlare da seduti di fronte al pc: uno scenario simile, con la necessità di dare spazio a ciò che si trova alle loro spalle, è tutto tranne che semplice da gestire. Però questa scelta, quasi obbligata, è stata forse sfruttata a metà con un palco che diceva veramente poco rispetto alle necessità di un live di questo tipo.

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Ma i 4 come hanno suonato?

Red Hot Chili Peppers cover Radiohead’s ‘Pyramid Song’ at the Egyptian Pyramids

Passiamo alla questione più calda: i Red Hot Chili Peppers hanno alternato ottimi momenti a picchi negativi. L’idea è che il live sia durato meno di quello che ci si aspettava da un evento così tanto pubblicizzato e in generale i brani suonati un po’ “lenti”. I bpm non erano all’altezza del nome della band. Certo, non per forza un concerto più veloce risulta migliore ma qui si tratta di un fattore spalmato su praticamente tutti i brani.

Un difetto che abbiamo visto, al pari del palco, è stata la frammentazione del live. Vero, non siamo di fronte a dei ragazzini e alcuni momenti per riprendere fiato sono necessari ma, pur legando con piccole e veloci jam, i brani sembravano un po’ troppo eterogenei tra loro. Un Kiedis troppo attento a quello che stava facendo sembrava più una macchietta di se stesso che veramente carico per quello che stava facendo, ma questo probabilmente è una conseguenza del palco completamente spoglio.

Josh Klinghoffer l’untore di tutti i mali?

Il povero chitarrista viene spesso additato come la rovina della carriera dei Red Hot Chili Peppers. Affermazioni inesatte. Klinghoffer ha sicuramente l’ingrato compito di sostituire una leggenda come John Frusciante, cosa tutt’altro che semplice. A livello puramente tecnico (e quindi non di scrittura) gli è probabilmente superiore, con una precisione nei live che Frusciante spesso tralasciava in favore dello spettacolo. Forse il problema del “nuovo” arrivato, così com’è stato con Kiedis, è stato il non voler sbagliare.

Tutta la band sembrava estremamente concentrata sul suonato a scapito però della spettacolarizzazione. Klinghoffer ha dimostrato in più live passati di saper tenere testa a una band che porta avanti la bandiera dell’adrenalina pura.

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Il problema dello streaming.

Una cosa che abbiamo subito notato è stato il non proprio performante mixing. Questo però è molto probabilmente legato solamente all’audio inviato per lo streaming. Klinghoffer non è certo un soprano ma la sua voce era sicuramente troppo secca e sacrificata, alcuni strumenti complementari quasi invisibili e qualche alto e basso sonoro.

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Vediamo i punti forti del live.

Fino a ora abbiamo elencato solamente i difetti, molto più facili da evidenziare, ma il seguitissimo live ha avuto anche notevoli pregi. Alcuni brani sono e saranno sempre ipnotici. Under the Bridge è un sogno nota per nota mentre Higher Ground si dimostra uno dei pezzi più energici mai fatti su un palco (pur anch’esso sotto di qualche bpm). La sorprendente Pyramid Song presa in prestito dai Radiohead e una I Wanna Be Your Dog degli Stooges che ha messo in evidenza la vera natura della band.

La chiusura del live è stata davvero emozionante. Goodbye Angels da brividi e con Give it Away han fatto vedere che i Red Hot Chili Peppers sono nati per il funk.

Un live che ci ha in parte delusi forse per l’altissima aspettativa e per i mezzi tecnici ma che speriamo poter essere l’inizio di una nuova e lunga storia di live in un luogo magico come l’Egitto, sia per i Red Hot Chili Peppers che per chiunque altro.

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