Radiohead – Pablo Honey | RECENSIONE

Pablo
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Davvero il primo album dei Radiohead è anche il loro peggiore? A trent’anni di distanza, è arrivato il momento di riascoltare con attenzione Pablo Honey (e non solo per Creep)

22 febbraio 1993: una delle band più leggendarie della storia della musica pubblica il suo primo album, ma in pochissimi lo sanno. I Radiohead sono in effetti già famosi da qualche mese e hanno un buon seguito, ma in quel momento nessuno può prevedere ciò che diventeranno con gli album successivi a quel primo: sfortunato, spesso deriso ma forse anche ingiustamente ignorato.

Quando si pensa a Pablo Honey di solito viene automaticamente in mente una canzone sola: Creep. Perfetta hit anni ’90, dal testo melanconico e disperato, nota per l’attacco di chitarra distorta e le urla sguaiate di Thom Yorke. Una canzone tanto amata quanto odiata (anche dalla stessa band), se mai ce n’è stata una.

Il successo del brano e il responso dei fan che formano il primo pubblico dei Radiohead è tale che, com’è noto, per anni il gruppo si rifuterà di suonare Creep dal vivo; e l’effetto immediato è quello di mettere in ombra il resto delle canzoni del disco, tant’è che oggi solo i veri appassionati conoscono alcuni degli altri titoli. E, in ogni caso, l’effetto è di un insieme comunque indeciso.

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Se certamente l’introduttiva You e Stop Whispering meriterebbero un posto tra i classici “minori” della band, nella tracklist va considerata anche una perla nascosta come Prove Yourself; per contro canzoni come How Do You?, Vegetable e I Can’t, pur essendo ottimi esempi di un buon rock alternativo anni ’90, non spiccano certo per originalità ed esercitano davvero poco impatto.

L’interesse risiede particolarmente nella parte centrale del disco: Anyone Can Play Guitar e Ripcord sono entrambe canzoni che sembrano già anticipare i suoni più audaci di The Bends (1995), ma andrebbero fuse insieme perché la prima non funziona nel refrain e la seconda nelle strofe. Buone intuizioni sembrano abbandonate a metà per soffermarsi su trovate deboli e più prevedibili.

In generale il difetto dell’album risiede, confrontandolo con i successivi lavori del quintetto, nella scarsa varietà di suoni: ancora tutti troppo figli dell’alternative inglese anni ’80 (c’è chi dice U2, ma in tanti passaggi ricordano più gli Smiths), incentrati attorno alle chitarre e con poco spazio per tutto il resto; inclusa la voce di Yorke, che ha poche occasioni per distinguersi.

Eppure il talento e le idee ci sono e il loro futuro è già tutto lì: lo prova la conclusiva e atmosferica Blow Out, una traccia che sembra anticipare addirittura le composizioni trasognate e distopiche di Hail to the Thief (2003). Ma i problemi attorno al resto della tracklist sono molti, compresa l’assenza del futuro super-produttore Nigel Godrich, che darà poi forma al “vero” sound dei Radiohead.

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Ma non solo: quello che manca è la spinta verso quella ricerca artistica che può venire solo dopo aver raggiunto un primo successo, aver soddisfatto i bisogni più immediati e aver constatato come la fama da rockstar (e sugli schermi di MTV, vedi sotto) sia fittizia e vana. In questo senso, possiamo dire che Pablo Honey si può vedere nel percorso dei Radiohead come un passaggio doloroso ma obbligato.

Una falsa partenza forse inevitabile, che fa da eco alle performance in studio di una band più ambiziosa che preparata (“Volevano essere i Beatles“, racconta il produttore Paul Kolderie) e che soprattutto ancora non ha un’idea precisa del percorso che vuole intraprendere. Un brutto disco? Se confrontato con gli altri giganti della loro discografia, certo che sì. Ma preso come a sé stante? Bè, riascoltatelo.

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