L’ordinario straordinario di Cameron Crowe

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Un regista capace di colpire con il suo metodo l’immaginario collettivo, è uno che può vantare un suo marchio di fabbrica preciso, un dettaglio che lo distingua a prima vista, come riesce a fare Cameron Crowe. Può essere un dettaglio nell’introduzione della pellicola, come spesso sceglie di fare Woody Allen, iniziando ogni sua opera con i titoli di apertura su sfondo nero e carattere Windsor bianco.

Piuttosto che una tipologia specifica di inquadratura in scena, come la trunk shut, tipica della mano di Tarantino. Per altri cineasti, la cifra stilistica appare direttamente all’interno della trama e questo è appunto il caso di Cameron Crowe.

Classe 1957, originario di Palm Springs e cresciuto in quella Indio che ora è tanto famosa grazie a quel Coachella che lui avrebbe saputo raccontare divinamente, se fosse stato organizzato durate la sua adolescenza.

Infatti, Cameron Crowe possiede una storia personale che meriterebbe un film tutto suo.

Ne ha raccontato un piccolo spaccato all’interno di una delle sue opere più famose, Almost famous, e attraverso il timido e intraprendente personaggio di William Miller, ha condiviso con il suo pubblico i suoi primi passi artistici, ma anche uno spaccato nostalgico degli settanta, che ha vissuto così intensamente.

Cameron Crowe può essere tranquillamente considerato un bambino prodigio e come detto sopra, la sua vita potrebbe servire da trama perfetta, per un film generazionale.

A soli 15 anni, così come il protagonista di Almost Famous, Crowe inizia a scrivere per Rolling Stones, ottenendo così la possibilità di intervistare alcuni dei più grandi artisti della storia. Bob Dylan, i Led Zeppelin e Neil Young, solo per citarne alcuni.

A soli 22 anni scrive il suo primo libro, intitolato Fuori di Testa, da cui verrà tratto il film dell’82 con Sean Penn e Nicolas Cage, che diventerà un vero e proprio cult generazionale. Grazie al racconto di uno spaccato piuttosto disilluso dell’adolescenza americana, riuscendo però a rendere iconico qualcosa di totalmente consueto.

Ed è proprio questa la cifra stilistica di Cameron Crowe, ciò che lo fa ricordare rapidamente dal suo pubblico.
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Say Anything… di Cameron Crowe

La capacità di rendere l’ordinario straordinario, raccontando vite comuni, in cui tutti possiamo riconoscerci e cristallizzandole in momenti iconici, celebrando emozioni che neccessitano di restare eterne.

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Lo ha fatto fin dall’inizio della sua carriera, con il suo primo film del 1989, Say Anything.. mettendo quello stereo in mano a John Cusack fuori di casa di Ione Skye, rendendo un impermeabile e una canzone, memorabili.

Il connubio tra musica e cinema è un elemento che ritroviamo costantemente nell’arte di Cameron Crowe, come il documentario sui Pearl Jam del 2011 ha palesato.

Dimostrando che per Crowe, la necessità di inserire il suo primo grande amore, nello strumento con cui ha scelto di raccontarsi, è fondamentale.

La musica è il collante che collega gli altri elementi fondamentali del suo cinema, tra cui spicca sicuramente l’amore e la ricerca dello stesso, l’affermazione del successo lavorativo e l’impronta fondamentale che la famiglia ci lascia addosso.

In base all’età in cui Crowe realizza il film di turno, questi elementi evolvono con lui e trovano spazi più o meno maggiori, a seconda della maturità dell’artista che li racconta.

In Say Anything… e Singles, il focus viene messo sulla ricerca dell’amore e delle prime relazioni, mentre in Jerry Maguire, (primo appuntamento tra Crowe e l’Academy Award), è il successo nella carriera che condiziona le scelte dei protagonisti.

Si prosegue con Almost famous, cult generazionale che racconta con malinconia e delicatezza, l’adolescenza del regista e che ci regala uno dei suoi personaggi più iconici, la Penny Lane di Kate Hudson.

E a Cameron Crowe, il suo primo Golden Globe e il suo primo Oscar alla miglior sceneggiatura.

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Arriviamo a Vanilla Sky, remake di Abres Los Ojos di Amenabar, film in cui il tema del rimpianto e del passato che tormenta il futuro, segna una cambio di rotta nel cinema che produrrà il regista.

A conferma di ciò, arriva Elizabethtown, uno dei film più discussi di Crowe che prende posto nella categoria commedia drammatica che vanta pochissimi esemplari disponibili.

La storia malinconica di Drew, prodigio del marketing che fallisce miseramente, ricorda esplicitamente il Jerry Maguire di Tom Cruise che si reinventa. Riscoprendo se stesso attraverso l’amore e la fratellanza, non prima però di aver scavato nel proverbiale fondo e solo attraverso la conoscenza di personaggi bizzarri, teneri e straordinari.

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Un’abilità peculiare che riesce tanto bene a Crowe è quella di regalare al panorama collettivo, immagini o battute memorabili che resistono nella memoria del grande pubblico.

Lo stereo di Lloyd Dobler che trasmette In your eyes, consacrandola come canzone manifesto delle più sfacciate dichiarazioni d’amore, le battute “Coprimi di soldi” e “Mi avevi già convinto al sì”, recitate in Jerry Maguire e citate in moltissimi film e telefilm, negli anni a venire.

L’immagine di Penny Lane che balla sul pavimento sporco post concerto, con un fiore tra le dita, così come quella di Kirsten Dunst che mima lo scatto di una fotografia, quando assiste a un momento che non vuole dimenticare.

Esistono nella cinematografia mondiale milioni di film incredibili, diretti da registi celebri e di immenso talento, che per quanto vengano acclamati, non possiedono la capacità di partorire scene iconiche o battute talmente efficaci, degne di diventare citazioni.

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Al contrario il cinema di Crowe, per quanto possa essere etichettato grossolanamente, come semplice commedia, di questa capacità ne è intriso. Appunto l’ingegnosità di rendere qualcosa di ordinario straordinario, degno di essere ricordato per sempre.

Le sue pellicole raccontano sempre parabole piuttosto simili. Discese e cadute verso un fallimento professionale o emotivo, che spingono il suo protagonista di turno a ricercare le proprie origini partendo dal proprio passato, in modo più o meno spontaneo.

Come se volesse suggerirci che la rinascita passa necessariamente attraverso la distruzione del superficiale e la riscoperta delle proprie radici.

Per questo il cinema di Crowe è uno di quelli che fa bene al cuore di chi lo guarda. Un cinema che fa riflettere senza l’intenzione di essere impegnato, un cinema che sublima il quotidiano e celebra l’originalità e le fragilità delle persone che lo vivono.

Spingendo i suoi protagonisti al perdono dei propri errori e di quelli che hanno subito a causa degli altri.

Dandoci l’impressione che il mondo possa davvero essere un posto semplice e magico allo stesso tempo, in cui poter vivere.