Locus Festival, giorno 7: Calcutta, Giorgio Poi, Margherita Vicario

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La serata del Locus si può riassumere in due fantastiche parole: ‘new old’.

La festa di compleanno per i quindici anni del Locus Festival dura ben tre settimane, e possiamo dire di esserne assolutamente felici. Abbiamo voluto partecipare anche noi al party musicale dell’anno, e abbiamo deciso di presenziare il 10 agosto, ad una festa vintage chic con il capitano Calcutta, il secondo in comando Giorgio Poi e l’animatrice della nave, Margherita Vicario.

La location scelta dal Locus per la serata è perfetta: lo Stadio Comunale di Locorotondo, un classico campo sportivo di periferia, magistralmente organizzato ma sul quale aleggia ancora un sentimento che non riusciamo a descrivere ma conosciamo benissimo. Una leggera malinconia da domenica calcistica in Prima Categoria, strascico italianissimo di cultura. Non sappiamo se Bass Culture srl (l’organizzazione del festival) abbia scelto questo luogo per il motivo da noi immaginato, ma mettendo piede sull’erba dello stadio respiriamo una nostalgia di tempi che non abbiamo vissuto, e il nostro dito correrebbe su Spotify a cercare “Calcutta” o “Giorgio Poi” se non fossimo certi di sentirli dal vivo tra poche ore.

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Ciò che ci ricorda costantemente che il Locus non è solo musica. (Fonte: Locus Festival)

Gli stand del Locus offrono i libri presentati al Festival nelle giornate precedenti, insieme alle proposte culturali del festival SEI – Sud Est Indipendente. Ancora una volta il termine più adatto per descrivere la situazione intorno a noi è “cultura”: non è solo godersi un concerto, è un’attitudine della quale la musica costituisce una parte fondamentale, ma non l’unica. “New old”, il vecchio applicato al nuovo; la nostalgia che prende dal passato lo stile e il carattere universale e dal presente l’infinità di possibilità e la continua innovazione.

Il main act non è l’unico evento degno di nota della serata.

Ad aprire le danze c’è Margherita Vicario, frizzante nuova proposta a metà fra il cantautorato e tanta voglia di scherzare che fa tremare il palco con la sua verve brillante e che lascia stupito il pubblico, non facendo per nulla avvertire l’attesa di Calcutta. Tastiera, campionamenti e voce, su Abauè / Morte di un trap boy tutti gli spettatori vengono coinvolti in un coro di vocalizzi che fanno il verso ai trapper da Instagram, peraltro buttandoli giù dal trono della “musica for fun”. Scacco matto finti gangster, qui ci vogliamo divertire e a farci divertire non ci sono ragazzini che fumano blunt con chili di autotune, c’è Margherita Vicario. Real recognize real.

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Margherita Vicario durante il suo live. (Fonte: Locus Festival)

Il set della Vicario lascia educatamente il posto a Giorgio Poi, che subito ci lancia nel suo mondo “new old” con chitarre acide e grafiche lo-fi. Lo stacco tra l’allegria piacevolmente invadente e il fumoso mondo dell’indie rock senza pretese è evidente ma non rovina l’atmosfera di spensieratezza che circonda il campo sportivo; si inizia però ad avvertire la malinconia citata in precedenza. Giorgio Poi è così: un giocherellone che con il suo indie rock scazzato fa finta di volerti far staccare dalla routine, ma ti infila qualche tarlo nel cervello.

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Quello del ragazzo con la voce squillante non è un opening act, e lo dimostra perfettamente.

Giorgio Poi attacca con Non Mi Piace Viaggiare e l’impianto audio restituisce fedelmente il sapore vintage della sua musica. Ci piacerebbe paragonarlo ad un Mac DeMarco meno cazzone, ma la verità è che Giorgio Poi si è ritagliato una nicchia nella musica italiana e paragonare i nostri artisti all’estero è un vizio che dobbiamo toglierci. La parentesi acustica di Missili (senza Frah Quintale) per un attimo ci scaraventa fuori dal mondo di Poi, ma è un attimo rientrarci con un’altra parentesi, Smog. Giorgio è completamente immerso nella sua vasca di acido lisergico e si culla nella sua chitarra che gracchia come una radiolina rotta; lui prima di noi è così appagato dalla propria musica che sembra strano vederlo smettere.

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Giorgio Poi live. (Fonte: Locus Festival)

Anche Poi riesce non solo a non far pesare l’attesa (e non di una band harsh noise sconosciuta, ma di Calcutta!) ma a dare esattamente l’impressione giusta: questo non è il concerto di Calcutta, è una serata di festa del Locus.

C’è anche Calcutta, però, che chiude il tour nel suo stile: con un timido botto.

Arrivare alla fama è relativamente facile, soprattutto quando il tuo modo di fare musica ha avviato una (tiepida) rivoluzione musicale in Italia; riuscire a gestire la fama, “fatale fama” la chiamava Morrissey in un pezzo degli Smiths, è tutt’altra cosa. Il nostro buon Calcutta nazionale non si è fatto fregare dalla vita da star e ha preso atto del proprio ruolo di guru. Quella del 10 agosto è la sua ultima “lezione”, l’ultima data del tour di Evergreen.

Quando si spengono le luci, sullo schermo sul fondo del palco appare la scritta accompagnata da una voce pitchata in basso “Benvenuti a questo concerto” e un delirio di grafica che probabilmente nella testa di Calcutta funzionava benissimo e, dobbiamo ammetterlo, funziona anche nella vita reale. Testimoni di un concetto che ripetiamo ancora una volta: Calcutta è la nostra cultura. L’ha compresa fino a fondo, riscoprendone le origini e riportandole alla luce: la vita da borghese provinciale anche se si vive in una metropoli (la Bologna di Gaetano, Pomezia, l’immancabile Milano) , la domenica a pranzo con la famiglia fermi guardare la partita (Hubner è un nome che i più dell’era pre-Calciopoli ricorderanno benissimo), le droghe più o meno leggere di cui però si ha sempre paura, il sogno di un amore fieramente adolescente a qualsiasi età (“Io sento il cuore a milleeeeee”).

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Grazie Calcù, sei un mito. (Fonte: Locus Festival)

Da grandi poteri derivano grandi responsabilità: Calcutta è il nostro Tobey Maguire.

Non è più il ragazzone che cantava Frosinone lacerandosi le corde vocali: la fama non ha fatto che bene a Calcutta. La sua band, che conta una seconda chitarra dietro la quale c’è Colombre e un quartetto di coriste, riarrangia magistralmente i brani di Evergreen, che necessitavano un supporto per reggere palchi più grandi di quelli dei club; ma anche i brani di Mainstream, concepiti con un’idea volutamente vuota e minimalista, avevano bisogno di essere ampiamente rivisti per riempire il palco.
Il tripudio di voci e archi di Kiwi e il delirio elettronico di Intermezzo 2 però lasciano spazio anche a classici chitarra e voce come Amarena e ad una versione meno ballabile di Oroscopo al piano. Non è una festa, anche se ad un certo punto ci viene qualche dubbio sulla serietà della situazione quando sullo schermo appare Dodò de L’Albero Azzurro che suona un violino.

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Non ci credevate, eh? E invece! (Fonte: Locus Festival)

I brani di Calcutta sono tutte potenziali hit, e vengono trattate come tali: ogni brano viene curato nei minimi dettagli. Edoardo non sbaglia un colpo e non stecca neanche una nota, dando ulteriore prova del fatto che la fama non gli ha dato alla testa, ma l’ha spinto a mettersi in discussione e a limare la propria figura musicale. Frosinone, Gaetano, Limonata mantengono il loro senso ma assumono una dimensione ancora più larga e approfondita. Il concerto si chiude con Pesto urlata a squarciagola e con il duetto improvvisato Calcutta-Giorgio Poi a cantare La Musica Italiana (il pezzo effettivamente scritto dai due artisti insieme); proprio per sigillare il significato della carriera artistica sia di Edoardo che di Giorgio.

Il party (tutt’altro che esclusivo) del Locus ci ha lasciato addosso un bellissimo senso di nostalgia.

Non fraintendeteci, non ci ha intristiti; peraltro, sapevamo benissimo a cosa stessimo andando incontro. Non ci stanchiamo di ripeterlo: è una nostalgia così leggera, che riassume il senso di “new old”: avvicinare il vecchio e il nuovo.

Chi è che non fa “new old”, ai giorni nostri? La tendenza ad accostare passato e presente è ormai una formula consolidata e l’hanno abbracciata tutte le organizzazioni di festival culturali. Eppure, il Locus merita ancora una volta i complimenti per essere riuscito a capire benissimo che non si possono accostare vecchio e nuovo senza un filo logico. Quale è stato il filo che ha collegato Margherita Vicario, Calcutta, Giorgio Poi? Questa stramaledetta e spensierata nostalgia, che forse non avrà senso ma che sotto il suo lato cazzaro nascosto da ironia e vestiti vintage riesce a dirci qualcosa. Che cosa ci dica, ovviamente, sta a noi capirlo. E se proprio non dovessimo capire nulla, divertiamoci e basta.

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Calcutta all’acme dell’emozione. (Fonte: Locus Festival)

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