Von Trier è senza ombra di dubbio uno dei registi più importanti degli ultimi tre decenni. La sua autorialità, il suo stile provocatorio e la forte personalità hanno spesso diviso pubblico e critica in maniera molto netta. Non è un segreto che il regista danese abbia attraversato vari momenti di depressione ed alcolismo, periodi che si sono riflessi, ovviamente, sul suo cinema. Un personaggio quantomeno singolare, a partire da quel “Von” aggiunto senza apparente motivo (proprio come Von Stroheim). Oggi si parla molto della sua produzione più recente e della trilogia del cuore d’oro, ma viene spesso dimenticata, ingiustamente, la sua prima trilogia, quella europea.
Europa esce nel 1991 ed è l’ultimo capitolo della Trilogia Europea, preceduto da L’elemento del Crimine (1984) ed Epidemic (1987).
Siamo nel 1945, nella Germania che è appena uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. In un paese devastato dai bombardamenti e dal regime nazista, Leopold Kessler (Jean-Marc Barr), americano di origini tedesche, decide di dare il suo contributo alla ricostruzione del paese. Grazie a suo zio trova lavoro in una compagnia ferroviaria, la Zentropa, amministrata dagli Hartmann, una ricca famiglia che fu legata al governo nazista. Leopold si innamorerà della figlia del capo, Katharina (Barbara Sukowa) e rimarrà invischiato, suo malgrado, nell’attività della resistenza anti-americana di cui la donna è membro.
Il film rappresenta forse la piena maturità del regista danese. I due film precedenti erano stati accolti molto bene dalla critica, venendo presentati a Cannes e, nel caso de L’elemento del Crimine, vincendo anche il Grand Prix Tecnico. Con Europaperò si aggiudica il Premio della Giuria e segna il più grande successo della prima parte della sua carriera. A sottolineare ancora una volta il suo carattere sfrontato, quando apprese di non aver vinto la Palme d’Or mostrò il dito medio alla giuria per poi lasciare la sala.
Del resto, difficile è anche la sua filmografia. In EuropaVon Trier tratta temi delicatissimi. Il famoso “Anno Zero“, già raccontato da Rossellini, ci presenta un’umanità sull’orlo del baratro. L’immagine che ne esce del popolo tedesco, del resto, è estremamente negativa, riflessa dalla Zentropa e dai treni, che occupano un grande spazio della scena. Quegli stessi treni che fino a pochi mesi prima portarono allo sterminio milioni di ebrei e che oggi, come se nulla fosse, sono tornati in servizio. Proprio come la famiglia Hartmann, fortemente legata al Führer che tenta di giustificare la sua collaborazione con il regime come necessaria e che tenta, oggi, di mostrare una nuova maschera senza aver mai smesso, segretamente, quella precedente. Un ritratto agghiacciante dell’incubo europeo post-bellico e della situazione del popolo tedesco.
Perché di incubo vero e proprio si parla
Von Trier ce lo mette subito in chiaro, mostrando da subito l’artificio. Veniamo introdotti infatti da una voce fuori campo che ci proietta in Germania tramite l‘ipnosi (come per L’elemento del Crimine). Ancora una volta guardando le rotaie divorate da un treno, elemento centrale della pellicola. La stessa voce (di Max Von Sydow) ci ricorda più volte durante il film la natura onirica della visione. Una visione dura, difficile da sopportare ma da cui, come ci sottolinea la voce, non si può sfuggire.
Quello che stupisce di più della pellicola è la capacità del regista danese di lavorare con forma e contenuto ora in maniera complementare, ora in maniera antitetica. Come è stato giustamente sottolineato dal Morandini:
“Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma“.
Questo a partire dal vibrante bianco e nero (con inserti a colori) e le scenografie, per passare da vecchie tecniche come sovrimpressioni e back projection ci sembra di trovarci davanti ad un film di un’altra epoca. Per opposto, Von Trier ne fa un uso estremamente moderno, a cui unisce la sua classica verve, disorientando e togliendo ogni certezza allo spettatore. La regia “pre-dogma” mostra qui tutta la maturità del cineasta, grazie ad una grande sapienza nell’uso della macchina da presa.
In sintesi, Europaè un film imprescindibile per conoscere un regista complesso come Lars Von Trier. Il punto più alto della trilogia europea costituisce uno dei massimi picchi nella filmografia del danese, che dà qui prova definitiva del suo grande talento. Al contempo classico e moderno, il film si distingue in maniera netta dal resto della sua produzione. Un unicum nella sua filmografia, ma che porta in nuce il suo stile fortemente provocatorio ed estremista, che tanto ha fatto discutere pubblico e critica negli ultimi decenni.