Pinocchio, Recensione del Live Action su Disney+

Ennesimo live action di casa Disney, Pinocchio è un film che alla resa tecnica non riesce a controbilanciare l'attenzione per il cuore della storia

Pinocchio
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Nel corso degli ultimi anni sembra che le parole Live Action siano diventato sinonimo di un tipo di produrre cinema, caratterizzato da una pigrizia creativa che porta quasi sempre a un’accoglienza tutt’altro che entusiasta: il caso più recente è il Pinocchio di Robert Zemeckis, che alla sua uscita è stato etichettato subito come flop su Rotten Tomatoes.

Il film di Zemeckis riprende la fiaba di Collodi, manovrandola però all’interno dell’immaginario collettivo creato da Walt Disney e tratta l’ormai nota storia del burattino di legno che viene creato da Geppetto (Tom Hanks) e a cui una generosa fata turchina (Cynthia Erivo) concede l’alito di vita.

Pinocchio spera di poter diventare, un giorno, un bambino vero, ma lungo la sua strada incontrerà numerosi ostacoli e tentazioni, contro cui potrà fare poco anche la coscienza del burattino, il Grillo Parlante (Joseph Gordon-Levitt).

La fiaba di Pinocchio, storia di formazione dall’alto valore morale, che insegna l’importanza della verità, della costanza e della famiglia, è oltremodo nota al grande pubblico e il film di Robert Zemeckis segue quasi pedissequamente i grandi momenti di svolta della storia.

Pinocchio, Recensione

Un nuovo capitolo

Quando si recensisce un live action – specie quelli realizzati in casa Disney – è pressoché impossibile non partire da un quesito imprescindibile: perché? La prima domanda che sale alle labbra è proprio questa e lo spettatore non può fare a meno di domandarsi il senso di spendere soldi su qualcosa che esiste già.

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In una società che è caratterizzata sempre più dalla lotta agli sprechi e alla consapevolezza, appare quanto meno anacronistico investire grosse cifre di denaro per portare sullo schermo una storia pressoché identica a quella che c’è già. Non c’è più l’insegnamento del recupero, non si cerca più negli archivi e si preferisce ripartire da zero piuttosto che educare a una fruizione più consapevole.

Che senso ha, dunque, sedersi davanti a una nuova (ma non così tanto) versione di Pinocchio? La prima risposta è forse anche la più immediata: nessuno. Soprattutto per gli spettatori più grandi, ormai adulti, che hanno avuto modo di vedere già il film pioniere del 1940, il nuovo film di Robert Zemeckis non ha senso. Non ha utilità, nemmeno quella di trattenere.

Ma è proprio da qui che parte l’errore: pensare che Pinocchio – o gli altri live action, se è per questo – siano pensati per tutti. Questi live action – e il film di Zemeckis non fa differenza – sono pensati soprattutto per un nuovo pubblico, per le nuove generazioni che si pongono domande sempre più frequenti su inclusività e accettazioni.

Questo vuol dire che, per quanto possa sembrare paradossale, un film come il Pinocchio del 2022 è in realtà un prodotto pensato per una nicchia, chiaramente indirizzato a un pubblico specifico e rappresenta dunque una sorta di nuovo capitolo. È un elemento, questo, che non può essere escluso, che non può essere ignorato, perché rappresenterebbe una posizione in qualche modo faziosa.

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Quindi probabilmente ci sono bambini e giovanissimi spettatori che non conoscono ancora la storia di Pinocchio e che, a prescindere dai millennials, si lasceranno affascinare dalla storia di un burattino a cui si allunga il naso ogni volta che dice una bugia.

Dov’è il cuore?

Pur accettando questo dato di fatto, ossia che Pinocchio non sia un film per tutti, bisogna però sottolineare i limiti del film di Robert Zemeckis che risulta comunque un prodotto deludente.

Mentre il regista insegue un realismo quanto più immersivo possibile grazie all’uso della CGI, allo spettatore viene chiesto di fruire di una pellicola che risulta al contrario artificiosa e artefatta, che svela l’inganno del mezzo, rendendo difficile poter godere del contenuto.

La resa tecnica – a un livello, appunto, prettamente tecnico – è inattaccabile, ma la sensazione è che l’attenzione del metteur en scene fosse così focalizzata sulla costruzione visiva da lasciare nelle retrovie il cuore della narrazione, il bagaglio emotivo, quello cioè che permette allo spettatore di interessarsi a storie e personaggi, lasciando che essi penetrino nella sua immaginazione, arricchendolo.

In questo caso, invece, ci si trova davanti a un buon prodotto tecnico che però rasenta il mero esercizio di stile, che spesso scivola nella noia e che spinge chi guarda a distrarsi più volte durante la fruizione, senza alcun interesse per quello che appare sul piccolo schermo.