In occasione del cinquantesimo compleanno del Re Cremisi noi de LaScimmiaPensa vi regaliamo una recensione per riscoprire quello che è stato e che è uno dei dischi più importanti di sempre.
Nel gennaio del 1969, nello scantinato di un caffè di Londra, gli appena ventenni Robert Fripp, Ian McDonald, Michael Giles, Greg Lake e Peter Seinfield portano a termine la loro prima prova insieme sotto il nome di King Crimson.
Dopo aver aperto per i Rolling Stones a Hyde Park nello stesso anno, i cinque ottennero non poca visibilità. Solo tre settimane dopo si ritrovarono ai Wessex Studios per incidere il loro debutto (uscito il 10 ottobre 1969) e, con esso, il loro nome nella storia della musica.
Scatto del concerto di Hyde Park, Luglio 1969 – Credits: Photo by Mike Randolph/REX/Shutterstock
“Nothing he’s got he really needs, 21st Century Schizoid Man“
Credits: Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images
In the Court of the Crimson King si apre con trenta secondi di silenzio, che precedono la virtuosissima e violentissima 21st Century Schizoid Man, un’evidente dimostrazione delle straordinarie doti tecniche di ognuno dei musicisti. Un canto profetico, futurista nelle parole e nelle sonorità, che vedono mischiarsi elementi jazz e rock in un calderone di folli suite strumentali, distorsioni e rumori.
Dopo questa terrificante premessa, i toni si pacano con la dolce e cullante melodia di I Talk to the Wind, che vede intrecciarsi fiati e chitarre pulitissime, sui quali scorre, doppiata, la voce di Lake.
Arriva allora la terza traccia, Epitaph: un’ode distopica di rammarico e sconforto costruita su un fraseggio di mellotron (elemento onnipresente nel disco) che è un continuo crescendo, nei suoni come nei versi, fino a culminare, sfiorando i nove minuti, nel brano successivo.
“Confusion will be my epitaph as I crawl a cracked and broken path”
La medievaleggianteMoonchild continua a tenere altissimo il livello di aulicità ed epicità del disco con i suoi dodici minuti (di cui più della metà strumentali) che la rendono apparentemente immortale e infinita. Le quattro strofe raccontano le fantasie del bambino magico dell’omonimo romanzo di Aleister Crowley, sfociando nella seconda sezione, in cui, ancora una volta, Fripp e soci danno sfogo all’immaginazione e all’improvvisazione in interminabili sequenze virtuosistiche.
La title track, In the Court of the Crimson King, è l’epilogo di questa straordinaria epopea dalle atmosfere eteree e sognanti. Un’elegia di nove minuti accompagnata da mellotron e delicati arpeggi di chitarra verso la fine in una dimessa sezione di solo flauto dolce, per poi ritornare, prorompente ed incontenibile, in una ripresa strumentale dell’introduzione che, pur di non affievolire e spegnersi col tempo, si arresta bruscamente.
“Three lullabies in an ancient tongue, for the court of the Crimson King”
Giunge così alla fine quella magnifica epopea, quel patetico capolavoro venuto fuori da cinque ragazzi londinesi alla fine degli anni ’60. Quel pilastro tra i più alti ed imponenti nella storia della musica che è In the Court of the Crimson King.
Il labor limae delle viaggianti poesie di Peter Seinfield, malinconiche ma sognanti e speranzose; il solenne mellotron e gli sfrenati fiati di Ian McDonald, ora aggressivi e prepotenti, ora dolci e cauti, e l’incontrollabile drumming di Michael Giles; la voce catartica e disperata di Greg Lake; e, dulcis in fundo, le divine dita di Robert Fripp, che tirano fuori melodie tanto aggraziate quanto leggendarie.
Tutto ciò unito insieme in un’esperienza di soli 40 minuti, tuttavia destinata a perdurare in eterno.