Fargo – Analisi della serie degna dei Coen (3a stagione)

E. Coen: "Molto materiale è fatto spesso di procedure. Persone che fanno delle cose per cancellare le loro tracce, o per ottenere qualcosa. [...] E' tutto molto - " J. Coen: " - Legato all'attività fisica per raggiungere un obiettivo. Una cosa che, onestamente, ci ha sempre affascinato."

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Fargo – La serie 

Eccoci arrivati all’ultimo appuntamento con l’analisi della serie dedicata al film cult dei fratelli Coen. Una serie grottesca e geniale quanto il grande film a cui è ispirata.

TERZA STAGIONE

Ci si affaccia così alla terza stagione sapendo l’immanità del pregresso che dovrà affrontare: due stagioni straordinarie, epiche in modi differenti che lasciano intendere chiaramente quanto sarà difficile ripetere un lavoro altrettanto di valore. Perché, non dimentichiamolo, Fargo è una serie antologica. Ogni stagione è una storia a sé, per cui ogni volta che si vuole ripescare dall’universo dei Coen e – a questo punto, non diciamo un’eresia – di Noah Hawley, bisogna ripartire completamente da zero, continuando lo stesso discorso.

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Forse un po’ snobisticamente lo si credeva impossibile, ma ecco che l’imprevedibilità del reale si manifesta anche qui, anche se mai come in Fargo.

Arriva così la terza stagione, capace di essere una chiara sintesi delle prime due, e arrivando addirittura a superarle entrambe, sotto ogni punto di vista.

Una miriade di personaggi importanti, anzi fondamentali, ognuno dei quali con una corrispettiva analogia ai personaggi dell’opera Pierino e il Lupo di Prokofiev. Palesata nell’incipit dell’episodio The Narrow Escape Problem, tradotto letteralmente Il Problema della Fuga Angusta, facendo riferimento a un problema ancora in fase di dibattito sullo studio probabilistico, casuale dei moti browniani (ossia di ioni o molecole attraverso dei fluidi, detto in soldoni). Come detto, con Fargo, e con i Coen in generale, non si cincischia mai. Andate a rivedere i titoli di ogni episodio per capirlo più a fondo.

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 Ma torniamo alla stagione in sé, che si apre con una perfetta divagazione coeniana.

Siamo nel 1988, nella Germania dell’Est. Un uomo viene interrogato dalla polizia sovietica, sospettato dell’omicidio di una donna. Ne esce un dialogo serrato, sempre sul filo dell’ironia, che si conclude, sotto lo sguardo quasi sconfortato dell’uomo, con le parole dell’inquisitore:

Noi non siamo qui per sentire storie. Siamo qui per scoprire la verità.

E’ un vero incipit della serie, che subito svela il tema maggiormente messo in risalto in questo capitolo: la ricerca del vero. Difficile dire quanto sia possibile e perseguibile, in situazioni dominate dall’assurdo e dall’incomprensione, come quelle che la serie mostrerà opportunamente.

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Proprio l’ambiguità e le incomprensioni scateneranno la nuova spirale di violenza e follia della stagione, tramite il mancato assassinio di Emmit Stussy da parte di suo fratello Ray (un Ewan McGregor impegnato in una doppia interpretazione che non verrà dimenticata facilmente). Mancato assassinio che avviene per una coincidenza, una casualità, che verrà a sua volta sfruttata dalla grande nemesi già accennata.

Varga è un predatore insaziabile e voracissimo, anche quando non ha motivo di esserlo, capace di manipolare la realtà a suo vantaggio – come il behemoth biblico

In questa stagione ritorna la figura del nemico invincibile, e inarrestabile, come nella prima stagione. Lì era Malvo, un agente del Caos, un vero demonio tentatore. Qui fa la sua comparsa V.M. Varga; interpretato da David Thewlis, regalando un’interpretazione che non sfigura per nulla con quella ormai leggendaria di Thorton. Un personaggio oscuro e misterioso quanto lo stesso Malvo, ma da non scambiare in alcun modo per una sua copia.

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Varga è un predatore insaziabile, bulimico; se in Malvo l’apparente insensatezza del suo agire stava in questo suo perpetrare il Male e il Caos senza freni, in Varga ciò che lascia interdetti è l’incredibile e altrettanto insensata voracità di questo personaggio; mangia, mangia, mangia a più non posso e sembra non volersi mai fermare. E puntualmente vomita poco dopo, per poter essere pronto a ricominciare a ingurgitare.

Se Malvo è Mefistofele, Varga è Behemoth, o Mammona.

Creature dedite all’ingordigia sfrenata, ma anche maestri dell’inganno e della menzogna. Esattamente, la menzogna.

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Spostando il tema più sul rapporto tra vero e falso in questa stagione, il nemico diventa necessariamente un emissario di qualcosa che si opponga al normale svolgimento di questo confronto. Varga sembra esemplarmente un maestro della menzogna, a livelli inimmaginabili anche per lo stesso Malvo. Non uccide mai nessuno direttamente nel corso della storia, ma come Malvo pare assolutamente invulnerabile, tesse una serie di trame, di inganni in cui tutti cascano puntualmente, è uno stratega fine e lucido, dotato di una dialettica e una cultura fuori dal comune, un poliglotta appassionato di opera, letteratura e storia. Un connubio di caratteristiche che sembrano renderlo in grado di plasmare la realtà a suo vantaggio. Di piegare la realtà a suo piacimento, non permettendo più di riscontrare il vero; di rendersi lui stesso, in questo modo, il creatore del vero.

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Citando in ordine sparso alcune sue battute:

Chi di noi può dire che ciò che è successo è davvero successo, e cosa sia semplice pettegolezzo, disinformazione, opinione?

e ancora quando gli si mostra una fotografia che pare incastrarlo pienamente:

Oh, ma le fotografie si possono ritoccare, gli occhi possono ingannare, vediamo ciò che crediamo e non viceversa.

Se ne potrebbero citare tanti altri esempi dove traspare questo suo atteggiamento, ma già questi rivelano cosa rappresenti un personaggio di questo tipo: una piena incarnazione del Nulla.

Il Nulla che tutto fagocita, e priva qualsiasi cosa di significato. Forse, oltre al rapporto vero-falso, uno dei temi portanti della terza stagione di Fargo, ancor più che nelle altre due stagioni, sia quello dell’eerie – è difficile tradurlo pienamente in italiano, si potrebbe definirlo “inquietante”, “misterioso”, ma toglie gran parte delle sfumature semantiche del termine. In un certo senso, inquietante secondo questa definizione potrebbe essere sommariamente definito come: “una presenza dove dovrebbe esserci un’assenza, o un’assenza dove dovrebbe esserci una presenza”.

Varga smonta la realtà, più volte e a suo piacimento, trasformandola spesso in una versione parecchio più credibile dell’originale. Non è un caso che sia un grande esperto in tema di social network e della rete in generale, con cui monitora qualsiasi attività sul suo conto, con cui riesce a spiare i suoi possibili nemici. Non è ben specificato come faccia a effettuare tutto questo, così come non era chiaro nella prima stagione come Malvo riuscisse a ottenere tutte le sue false identità: sembrano, realmente, emissari di qualcosa che va al di là della comprensione umana, di un qualcosa capace di influenzare il flusso degli eventi.

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L’assenza di un qualcosa che possa contrastare la tensione all’annichilimento del reale di Varga, e al contempo la presenza di una serie di “fili che ordiscono l’arazzo del reale”; come testimoniano gli incontri di Gloria Burgle e soprattutto Nikki Swango con un curioso signore, Paul Murrane, e quello tra quest’ultimo e il sicario di Varga, Yuri – questi ultimi due palesi citazioni al Grande Lebowski, ma le tre stagioni sono infarcite di citazioni alla filmografia dei Coen.
Ecco dove nasce l’eerie di Fargo.

Così come nella seconda stagione erano presenti gli UFO, anche nella terza – identificando Paul Murrane con l’Ebreo Errante -, si fa riferimento a un qualcosa di trascendente; un qualcosa che pare possa indirizzare a suo piacimento, o almeno influenzare, il corso degli eventi senza un motivo nitido, anche verso risvolti tragici.

Come se, più che di una presenza divina – come ci si potrebbe illudere attraverso la morte di Yuri -, si parlasse della semplice e pura casualità, che domina incontrastata l’universo di Fargo.

Entità, presenza dove dovrebbe esserci assenza, che lascia ben intuire quanto Emmit Stussy sia fuori posto: pensa di avere tutto sotto controllo (“le nostri base sono solide, così come le nostre azioni” ripete spesso a Varga, quasi per convincere se stesso), di poter avere tutto sotto controllo, senza rendersi conto di essere finito inconsapevolmente tra le fauci di un lupo. Si ritroverà vittorioso assolutamente anche lui per Caso, ma solo temporaneamente, quasi questi avesse voluto semplicemente trarlo in inganno; innalzarlo sul palco dei vincitori, per poi togliergli subito tutto. Un parallelismo che forse lo rende molto vicino ai coniugi Blamquist della seconda stagione.

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Gloria pare l’unica – fatta eccezioni a Nikki Swango, per dei piccoli e fugaci frangenti – in grado di opporsi attivamente all’invincibilità di Varga.

Accettato pienamente il suo posto nel mondo, osservata e metabolizzata l’oscurità, il buio presente in esso, smette di essere invisibile, e diviene capace di muoversi tra le sue trame, per quanto le è possibile.

Quello tra gloria e varga non è uno scontro risolutore, ma solo un ulteriore manifestazione dell’inquietudine che permea l’intera storia.

La scena finale forse esemplifica benissimo quanto detto all’inizio del discorso: la Luce contro l’Oscurità, la Ragione contro la Follia, il Vero contro la Menzogna. Può sembrare ingenuo come discorso e restrittivo, ma se vista in un ottica non manichea, dicotomica, ma di costante ricerca insita nell’uomo, forse si può apprezzare meglio la forza di tale allegoria.

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Gloria contro Varga è infatti uno scontro che non appare per nulla risolutore, ma che anzi lascia inquietudine, quell’eerie a cui abbiamo accennato. Dà quasi l’impressione che Varga possa farla franca anche adesso, quando sembra del tutto alle corde.

Vince il Nulla, allora? No.

La realtà, per quanto intrisa di menzogna, continua ad esserci. Anche di fronte al Nulla, anche quando tutte le ipotesi si appiattiscono e appaiono identiche tra loro, la realtà in qualche modo c’è, resta sempre lì. E stimola l’uomo, stimola Gloria, alla ricerca di un significato. Ecco perché quello dei Coen non è nichilismo; se proprio volessimo vederlo come nichilismo, saremmo più vicini a quello di Nietzsche, non di Schopenauer.

Agent Burgle. Gloria. Trust me.

La realtà c’è, possibilmente indecifrabile, ma esiste e ti stimola a interpretarla costantemente anche di fronte al Nulla, se vuoi continuare a muoverti in essa. E’ in un certo senso il problema al centro di Sunset Limited, per tornare ancora una volta a McCarthy, dove il desiderio del Bianco di suicidarsi è causata dal suo non voler più opporsi al Nulla e interpretare la realtà.

Quanto possa essere consolatorio questo, meglio lasciarlo all’autonomo pensiero di ciascuno.

 

Ma la storia non termina qui

Pensavo fosse il finale di stagione perfetto, e la chiusura perfetta della storia. Il Bene e il Male, con tutte le loro sfaccettature, che si guardano, costantemente, in una lotta eterna che pare senza speranza, e dove comunque si può intravvedere sempre uno spiraglio di luce.

Negli ultimi giorni, tuttavia, alcune dichiarazioni il presidente di FX John Landgraf ha sibillinamente aperto le porte a una possibile quarta stagione nel 2019. Forse questa terza stagione sarebbe stata la chiusura perfetta del cerchio, ma – osservando i precedenti – se Noah Hawley ha davvero intenzione di continuare il progetto, sicuramente, sarà perché ha trovato nuovi spunti per ampliare quest’inquietante e affascinante universo a cui ha saputo dare vita.

Una fiducia che, in fondo, si è ampiamente guadagnato sul campo.

Chiudiamo questo discorso come ogni stagione di Fargo: con North Dakota, il tema portante, che racchiude in sé tutto lo spirito dell’opera. La sua malinconia, la sua tragicità, e al contempo la sua epicità. L’epicità di quei tanti piccoli personaggi che, strenuamente, forse senza speranza, lottano con gli Dei.