Gli amori di una bionda – La commedia amara di Milos Forman di nuovo in sala

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Prima di girare film ad Hollywood con estremo successo e di fare incetta di Oscar (miglior film e miglior regia sia nel 1975 per Qualcuno volò sul nido del cuculo che nel 1984 per Amadeus), il regista cecoslovacco Milos Forman contribuiva, nella sua patria, a dar vita ad una delle tante “nuove ondate” che animarono il cinema mondiale tra gli anni ’50 e ’60 (ad eccezione dell’Italia che già aveva avuto il suo Neorealismo negli anni ’40). La Nova Vlna dell’odierna Repubblica ceca si univa dunque ad un coro fondato su presupposti di destrutturazione del racconto, stile non troppo ricercato o formalista – ma fino ad un certo punto, come si arguirà da certe immagini- e, soprattutto, folgorante realisticità di situazioni e personaggi.

Il suo terzo lungometraggio, Gli amori di una bionda, restaurato quest’anno dal laboratorio L’immagine ritrovata della Cineteca di Bologna e tornato nelle sale italiane ad aprile, fu quello che, nel lontano 1965, lo portò alla ribalta catturando l’attenzione della critica internazionale. La candidatura all’Oscar per il miglior film straniero per questo film fu, de facto, il trampolino di lancio per una carriera che, come detto, continuò in America negli anni ’70 e si rivelò decisiva, guarda caso, per un altro importantissimo movimento cinematografico: la cosiddetta “New Hollywood” (il primo film americano di Forman sarà Taking off nel 1971).

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Milos Forman sul set di Amadeus (1984)

Più che il meccanismo causa-effetto, comunque presente nello sviluppo della trama, a contare sono 3 o 4 spunti, situazioni universali, in cui vengono calati personaggi-simbolo (come il titolo suggerisce, la bionda è una bionda, intesa una come tante, una sineddoche per indicare le ragazze tutte). Si può intravedere in questo l’influenza di Godard: come l’importante esponente della nouvelle vague, anche Forman usa soffermare la propria attenzione, senza badare al minutaggio, su dialoghi non certo utili a portare avanti la trama, e allo stesso modo tratteggia la psicologia di una donna attraverso la sua partecipazione in situazioni eterogenee (si pensi, volendo estremizzare, ai famosi dodici quadri in libera successione in cui si muove la prostituta di Questa è la mia vita); emblematico poi che il 1965 sia anche l’anno in cui in Italia usciva un film basato proprio su tale presupposto, il capolavoro di Pietrangeli Io la conoscevo bene, dove il motivo dell’estremo gesto che la protagonista compie nel finale è nascosto all’interno dei frantumi della struttura narrativa.

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In questo caso la bionda in questione è una ragazza di bell’aspetto di nome Andula, lavoratrice in un calzaturificio assieme ad altre giovani donne nella Cecoslovacchia comunista degli anni ’60. La piccola città in cui abita, non molto distante dalla capitale Praga, è gravata però da un annoso problema: il rapporto numerico tra femmine e maschi è di 16 ad 1, e ciò crea un certo malcontento tra le operaie. La soluzione tentata dal comitato di fabbrica è quella di chiedere all’esercito di stanziare una corposa legione sul posto. Ed è qui che si giunge, dopo un breve prologo, alla prima lunga sequenza del film: tre militari non certo di primo pelo tentano di sedurre Andula e due sue amiche in una spaziosa e gremita sala da ballo. Ma la bionda, forse, è più attratta dagli sguardi fugaci del pianista che sta suonando sul palco.

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Fin da subito Forman è abile nel delineare i tanti caratteri che animano la scena: il soldato miope e grassoccio che si toglie la fede, ma che, sotto sotto, non vuole tradire sua moglie; il tavolo delle ragazze bruttine e sconsolate perché nessuno le invita a ballare e, in tutto ciò, le tre operaie al centro dell’attenzione che non sanno come fare per sbarazzarsi dei loro corteggiatori. Traspare, verso questa variegata galleria di personaggi, il profondo affetto di un regista sensibile e attento osservatore della realtà sociale. Appare evidente infatti, quanto egli conosca bene ciò di cui parla. Da antologia è la scena in cui il giovane pianista si approccia ad Andula, la porta in una camera da letto e, con la scusa di insegnarle delle mosse di auto difesa dai molestatori, riesce a conquistarla.

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Con un tocco leggero e personale, Forman si serve già di temi e meccanismi che, per quanto in misura meno suggerita e più marcatamente spettacolare rispetto agli esordi, saranno poi tipici del suo cinema successivo: giochi di montaggio parallelo e alternato (chi si ricorda l’inizio e il meraviglioso finale di Hair?), figure matriarcali castranti (la cognata di Mozart in Amadeus e, per iperbole, la spietata infermiera “madre di tutti i pazzi” di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e l’importanza della dimensione del racconto come antidoto ad una realtà crudele (né è un esempio lampante l’ultima e volutamente ambigua inquadratura di Man on the moon: finchè si tratta di un film, Andy Kaufman può essere ancora vivo).

Il film è però, anche e soprattutto, una denuncia della condizione femminile: queste solerti lavoratrici, infatti, sono vittime di una emancipazione parzialmente illusoria; sono libere di farsi scegliere, più che di scegliere davvero. Quando Andula si presenterà a Praga per rivedere l’amato musicista, l’accoglienza che le riserveranno i genitori di lui non sarà, di conseguenza, delle migliori e, in un clima tragicomico (anch’esso tipico di tutto il cinema formaniano), tra una risata e l’altra, ad affiorare sarà prevalentemente lo sconforto.

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Curiosità: nella versione italiana del film (non quella in v.o. con sottotitoli distribuita ora nelle sale) la canzone in lingua ceca dei titoli di testa è stata sostituita con la hit dell’epoca “Nessuno mi può giudicare”  di Caterina Caselli.