Oppenheimer, la Recensione del film con Cillian Murphy
In sala dal 23 agosto, l'ultimo film firmato Christopher Nolan, con Cillian Murphy protagonista: Oppenheimer. Un vero capolavoro che vi lascerà di stucco. Ecco la nostra recensione.
Il prossimo 23 agosto finalmente arriverà in sala Oppenheimer, ultimo film di Chritsopher Nolan nonché secondo evento cinematografico dell’anno, ma solo per l’ordine cronologico di uscita rispetto a Barbie. Cillian Murphy a dominare la scena di quello che è il miglior film del regista di Inception e Interstellar, nonché della ormai iconica trilogia di Batman.
Un film apparentemente distante dalla poetica di Nolan, eppure quantomai vicino a quanto raccontato fino ad oggi. Cambia la forma, o meglio modificata, piegata come sempre ad un racconto dove la realtà non è mai ciò che sembra realmente. Sia da un lato teorico che soprattutto da un lato politico.
Oppenheimer, la Trama
Come facilmente intuibile dal titolo, il film racconta la storia di J. Robert Oppenheimer, fisico americano che fu assoldato dall’esercito per costruire la bomba atomica, con i risvolti storici che tutti noi ormai conosciamo, ancor più in questo recente periodo.
Un costante alternarsi tra un processo farsa in piena era McCarthy (leggasi alla voce “maccartismo“) e le intuizioni delle brillanti menti che hanno portato alla creazione di un “gadget” di distruzione di massa, come veniva definito.
Oppenheimer, la Recensione
Il cinema di Christopher Nolan si è sempre mosso su binari specifici, dove il regista britannico ha da sempre osservato la realtà muoversi tra la sua essenza puramente soggettiva e quella legata all’esperienza comune. In altre parole una risposta alla domanda che il mondo si pone da sempre: cos’è reale?
Scavando a fondo nella sua filmografia, troviamo tra i primi esempi Memento, film in cui attraverso il montaggio, la realtà viene scomposta e assemblata, arrivando alla chiusura di un cerchio dal sapore di un thriller. E ancora, il caos del Cavaliere Oscuro, la fantascienza di Inception e Interstellar, nonché dell’ultimo Tenet. Quindi la storia, materia che di fatto non ha mai interpretazioni univoche dei fatti, con Dunkirk, e a suo modo, The Prestige.
Film legati da un sottile filo rosso e dal quale neanche Oppenheimer sfugge, ovviamente. Eppure, il suo dodicesimo film sembra discostarsi dal quanto prodotto sino ad oggi da Christopher Nolan, almeno nella sua apparenza formale. Per la prima volta, il regista di Interstellar scrive e dirige un suo film, prendendo spunto dalla biografia intitolata American Prometheus, epiteto pressoché perfetto per il protagonista della storia.
Una storia che ci trascina in un vero e proprio abisso morale, grazie soprattutto alla magistrale interpretazione di Cillian Murphy, che ormai non dovrebbe far più notizia. Eppure, rimarcare la bravura di un attore quantomai collaudato è sempre necessario. Un freddo fisico, attento solo al suo lavoro, alla realtà che percepisce, all’aver compreso di poter avere tra le mani un fuoco distruttore.
Oppenheimer ci racconta di manipolazioni costanti, osservate da una molteplicità di punti di vista e di generi cinematografici. Da quello scientifico, composto di quanti e atomi, a quello politico, dove non esiste mai una realtà oggettiva. La percezione diventa quindi unico strumento per risalire all’oggettività. Da quei cerchi concentrici che forma la pioggia sulle pozzanghere fino alle stelle. Gli occhi di Oppenheimer non sono come i nostri né come quelli di nessun altro.
Christopher Nolan dunque si piega alla realtà, invertendo la rotta di Dunkirk, per certi versi. Non più il racconto di un evento storico scomposto in base ai quattro elementi ma una storia la cui unica scomposizione è quella più classica possibile, fatta di costanti flashback. Passato e presente in una costante alternanza, come il bianco e nero alternato al colore e a seconda di chi è in scena. Il focus sul quale si sofferma la macchina da presa del regista è quello relativo allo sguardo di Robert Oppenheimer, fisico e uomo.
Nolan si chiede cosa vedono quegli occhi, soprattutto come. Da qui, i meravigliosi primi piani di un volto di ghiaccio, che solo raramente si lascia andare alle sue emozioni. La razionalità predomina, tanto nelle parole quanto nelle immagini che si susseguono. Una razionalità alla ricerca della perfezione assoluta, almeno su un piano teorico. Perché, la teoria, arriva fino ad un certo punto.
È solo in seguito che subentra la pratica, l’esperimento, la realizzazione. Famosi i racconti e gli eventi accaduti sul set, esperimenti figli di una ricerca spasmodica delle perfezione cinematografica, senza l’ausilio di CGI. Non c’è spazio per gli errori, dunque, perché un errore significa ripartire da zero. Esattamente come in quel di Los Alamos, la cittadina costruita ad hoc per riunire le menti scientifiche più brillanti dell’epoca affinché risolvessero la guerra.
Si potrebbe infatti pensare che Oppenheimer sia un film a carattere profondamente metacinematografico, che riesce a coniugare ogni forma di realtà possibile esistente. Il genio scientifico del protagonista, il genio artistico del regista. Un legame indissolubile dove il mantra è la ricerca della perfezione.
Sono pochissimi i silenzi durante le tre ore di durata del film, che comunque scorrono via un battito d’ali. Ma la verbosità del film viene affiancata da immagini di rara bellezza e potenza visiva, con una colonna sonora (firmata Goransson) di rara coerenza rispetto la diegesi. Emblematico in tal senso, quel ronzio persistente, quel costante gracchiare che ricorda il rumore del contatore geiger mentre stanno assemblando la bomba per l’ultimo e definitivo test.
Il pensiero scientifico, facilmente etichettabili come spiegone, viene affiancato costantemente da immagini sublimi, nell’accezione kantiana del termine. E bastano i primissimi secondi del film per capire questo concetto, abbandonandosi alla sensazione che vi lascerà quel fuoco eterno che brucia. Un’alternanza tra pensiero e immagine che rispecchia dunque quanto detto sopra, ossia teoria e pratica, l’idea e la sua messa in azione.
In egual modo, Nolan gestisce coerentemente anche tutta quella parte da legal thriller che vede mettere in scena un miserabile gioco (politico) delle parti. Uno scontro tra Lewis Strauss, un sempre perfetto Robert Dawney Jr., che architetta una manipolazione dei fatti per trarne un giovamento professionale. Non scendiamo in particolari specifici onde evitare spoiler per chi non conosce la storia. Ma in altre parole, anche qui, la realtà trova la sua manipolazione perenne in ciò che sembra essere e ciò che viene percepito come accaduto.
In altre parole, Christopher Nolan ha preso in mano le redini del suo cinema e con l’estrema accuratezza tecnica, fa di Oppenheimer la sua summa. Un’equazione perfetta che vi terrà con gli occhi incollati allo schermo, lasciandovi sensazioni contrastanti, in cui concetti come bene e male vengono elaborati fuori da schemi prettamente manichei. Perché in fondo l’abisso morale può anche essere un obiettivo, soprattutto se si parla di politica.