Thirst: vampiri, sete e desiderio nel capolavoro di Park Chan-wook | RECENSIONE

Thirst
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In Thirst, del 2009, il maestro Park Chan-wook rappresenta il vampirismo come estrema evoluzione del desiderio e le grottesche conseguenze a cui conduce

Thirst è un film del 2009 nel quale Park Chan-wook (Oldboy, Mademoiselle) mette in scena un horror con i vampiri ma ben distante dalle tradizioni gotiche occidentali nonché dalle produzioni più trash di Hollywood. Si tratta infatti di una complessa metafora, intessuta come sempre con delicatezza e precisione, costruita sull’assuefazione dal desiderio.

Desiderio proibito, per inciso, che è quello che abbracciano i due protagonisti, il prete Sang-hyun (Song Kang-ho) e la moglie asservita Tae-ju (Kim Ok-bin). Il primo si ritrova ad essere un vampiro a causa dopo essersi offerto volontario come cavia per la sperimentazione di un vaccino contro un virus letale (in tempi non sospetti).

La seconda, sposata con “l’idiota” Kang-woo, rimane subito intrigata dal mistero della “malattia” di Sang-hyun, amico d’infanzia del marito. E si fa coinvolgere nel suo mondo, abbracciando il gusto del proibito e lasciandosi dietro ogni inibizione legata alle convenzioni del mondo degli umani, giungendo a superare ogni limite.

Ma fino a che punto si può arrivare? Quando può cessare questa sete di sangue, sia metaforica che come vero e proprio anelito verso l’unico nutrimento dei vampiri? L’ex-prete capisce presto che non c’è un limite e sceglie di imporlo lui stesso, a sé e alla compagna, prima che sia troppo tardi e che i due arrivino a perdere per sempre ogni tratto di umanità.

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Questa “sete” che li guida è la somma di tutte le pulsioni represse dalle varie istituzioni che ingabbiano i due amanti: la chiesa, ma anche la famiglia. E la società nel suo complesso, che impone di non rubare, non uccidere, non tradire. Ma perché allora, se queste cose sono sbagliate, è così piacevole abbandonarvisi? Ed è questo che segna la linea tra umani e non umani?

Queste le domande poste dal film in una trama oscura e allegorica che cede solo in parte all’esposizione di una violenza, come sempre nel cinema di Park Chan-wook, chirurgica e lancinante ma mai estremizzata. E non ci sono i classici cliché dei film di vampiri: niente canini, volti cerei ma seducenti, qualche villa o castello abbandonato.

Il motivo sta nel fatto che Thirst intenda essere un film horror più nella forma che nella sostanza. Il conflitto tra la parte umana, rappresentata dal senso di colpa, e tra quella vampirica, che si ritrova nella pulsione del desiderio, regge tutta la trama. E se infatti da una parte i due protagonisti indulgono in trasgressioni senza fine, dall’altra entrambi all’inizio si “puniscono” auto-flagellandosi.

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Non a caso parliamo di un prete, costretto a una vita di castità e abnegazione, e di una moglie bistrattata e annichilita, desiderosa di riscatto. Sui due s’impone poi lo sguardo della madre adottiva di lei, ammutolita dopo la morte del figlio (l’idiota, ucciso dai due vampiri) ma imperante e silenziosamente giudicatore.

Questo sguardo perennemente fisso e impassibile fa presto crollare l’illusione di libertà della coppia, che già è tormentata da visioni da incubo del cadavere di Kang-woo e subisce tutte le altre classiche limitazioni dei vampiri. Non possono stare al sole, devono sempre bere solo sangue, e per forza di cose presto si ritrovano isolati dalla società.

Ne vale la pena, quindi? Il film risponde da solo, mostrando come per gli umani la scelta infine non sia di natura divina ma sempre e soltanto individuale, dipendente da noi stessi. E lasciando un finale amaro come conclusione di una serie di vicende più drammatiche che orrifiche, pone anche l’obbligatoria domanda agli spettatori: voi avreste fatto lo stesso?

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