Decision To Leave, la Recensione del film di Park Chan-wook
In sala dal 2 febbraio grazie a Lucky Red, arriva il nuovo film di Park Chan-wook, Decision To Leave. Un film che si candida prepotentemente ad essere il migliore dell'anno. Ecco la nostra recensione
Arriva in sala dal 2 febbraio, Decision To Leave, il nuovo intenso film di Park Chan-wook. Stavolta però siamo lontani dai lidi vendicativi di quel capolavoro di Old Boy. A far da padrone, è una storia d’amore inusuale, tra un poliziotto ed una principale sospettata. Un film meraviglioso che già si preannuncia tra i migliori usciti in sala nel 2023.
Dopo l’ormai famigerata trilogia, Park ripone la vendetta per tornare a raccontare una storia d’amore bella e atipica, come I’m A Cyborg But That’s Ok, dramedy del 2006 passato in sordina ma ora disponibile in home video anche qui in Italia. E così come nel suo predecessore ideale, Decision To Leave decide di affidarsi al connubio di generi, ai loro stilemi unificati in un unico grande film.
Decision To Leave, la Trama
Siamo in Corea del Sud, in quel di Busan (ma senza zombie ovviamente). Qui opera come detective l’apprezzato Hae-jun, al quale capita tra le mani un caso abbastanza sospettoso. Una misteriosa caduta durante un’escursione tra le montagne, porterà il detective ad interrogare la moglie, Seo-rae, una sino-coreana che non appare per nulla sconvolta dall’accaduto. Qualcosa non torna e le indagini porteranno il detective ad un impasse emotivo devastante.
Decision To Leave, la Recensione
Una storia d’amore dove i protagonisti non si dicono mai “ti amo“. Era questo l’intento di Park Chan-wook, acclamato regista coreano la cui fama lo precede. Ebbene, con Decision To Leave, possiamo dire che ci è ampiamente riuscito. Una storia di crimini e d’amore, di incidenti che potrebbero sembrare omicidi. Di incomunicabilità.
Già nel suo precedente Madamoiselle, il regista di Old Boy ci aveva raccontato a suo modo una storia d’amore. Ma le truffe del film del 2016 vengono qui sostituite dall’elemento più squisitamente thriller, nel senso più puro del suo termine. Un punto di partenza dal quale il Decision To Leave si stacca per poi tornare prepotentemente.
La matrice chiaramente hitchcockiana di Decision To Leave è pressoché evidente a chiunque. Un omaggio non voluto, stando alle parole di Park, ma è impossibile non pensare al maestro del brivido inglese. Tanto per la struttura dei personaggi, tra soggetti attivi e oggetti passivi, quanto (e soprattutto) a Vertigo o La Donna Che Visse Due Volte.
Eppure qui non c’è una Kim Novak che torna misteriosamente “in vita“, bensì una sontuosa Tang Wei sotto l’occhio inquisitorio di Park Hae-il, che indossa gli insonni panni del più classico dei detective maledetti dall’amore, Jang Hae-jun.
Questi conduce una vita normale, stereotipata. Fa il suo lavoro al meglio, ha una moglie con la quale condivide una classica routine. L’ingresso di Tang Wei nella sua vita, Seo-rae nel film, segnerà inevitabilmente ogni cosa che lo circonda. Lei, bella ed enigmatica, con uno sguardo che rimanda quello della Gioconda, come suggeriscono neanche velatamente i character poster.
Attraverso la sua raffinata regia, Park ci permetterà di scendere dentro gli abissi del sentimento, di una relazione mai consumata e solamente formale, in piena coerenza con il film stesso. Impossibile dunque non pensare al cinema di Wong ed al suo In The Mood For Love.
Torniamo quindi al punto di partenza, ad una storia d’amore dove quest’ultimo rimane nascosto, senza mai manifestarsi apertamente. Park lo indaga e lo spettatore insieme a lui. Un amore che si trova negli sguardi, nell’inquadratura che fa da cornice. Ora indugiando sul dettaglio di due mani diverse ammanettate, ora attraverso il filtro di uno schermo, durante l’interrogatorio.
Il disagio del detective protagonista è palpabile minuto dopo minuto, sconvolto da ciò che prova, combattuto tra etica professionale e quel sentimento che devasta la ragione. Insieme a quel tarlo del dubbi che si insinua prepotentemente e che ci fa porre l’inevitabile domanda: Seo-rae sta manipolando Hae-jun per scamparla?
Decision To Leave propone una struttura a rima alternata. Un cinema di poesia che propone un thriller, quindi un dramma d’amore perfettamente bilanciati e che finiscono per confluire l’uno con l’altro. Immagine dopo immagine, Park decostruisce di volta in volta questo neo-noir potentissimo, che strugge l’anima di chiunque,
Non è sicuramente un’operazione facile da perseguire. Raccontare una storia del genere, e di genere, dove predomina il non-detto, può causare confusione o peggio ancora annoiare. Eppure Decision To Leave sa quali corde toccare, entrando dentro il cuore di ogni spettatore. Ci viene mostrata una quotidianità fatta di dubbi e timori, ma sempre composti, senza esagerare o entrare in una provocatoria morbosità.
Soprattutto, ci racconta un’altra storia d’amore, ambigua fino in fondo, difficilissima da decifrare. La vertigine hitchcockiana si trasforma, diventando messa in scena di un proibito mai esplicitato ma solo sussurrato. L’ordinario diventa dunque pretesto per insinuarsi nella vita altrui, di costruire un’intimità che assume contorni manipolatori.
Il senso di colpa del tradimento subentra durante quella che è routine giudiziaria, fatta di domande invadenti per conoscere la verità, di geolocalizzazioni e note audio, di un pranzo condiviso. Di un traduttore, strumento tecnologico che viene usato all’apparenza per carpire informazioni utili al caso investigativo ma soprattutto per rafforzare quanto più possibile questo folle flirt.
Non l’atto in sé consumato ma il contesto che gira intorno ad esso, quelle sensazioni e quei pensieri, quei sentimenti dai quali non è possibile fuggire. Anche se ci si trova in una situazione scomoda, come quella di un poliziotto che ha forti sospetti e che li rinnega. Una tensione che genera un circolo vizioso apparentemente senza uscita.
E ancora, una forma d’amore silenziosamente gridata, con tutte le barriere del caso che vanno dalla difficoltà nel parlare coreano di Seo-rae fino al dover rispettare quei ruoli istituzionali che la società ha imposto loro. Ruoli antitetici per definizione, dove c’è un muro invalicabile a far da inevitabile divisorio.
Ad intensificare queste sensazioni a dir poco perturbanti, ci pensa la regia di Park, sempre elegante e raffinata, caratterizzata da virtuosismi mai fine a sé stessi. Così come la scelta di mescolare i generi, raccontando di pulsioni e repressioni delle stesse, con la maestria che lo ha sempre contraddistinto.
Dal poliziesco al dramma, fino ad arrivare alla costruzione di un neo-noir del tutto atipico. Park Chan-wook costruisce un vortice di generi nei quali subentra un vortice di emozioni, creando un caos perfettamente ordinato ed orchestrato, anche grazie alla complicità dei due meravigliosi protagonisti.
Cos’è l’amore, dunque? Un crimine nascosto, tanto sincero quanto colpevole. Ma dal quale non è possibile fuggire. Un sentimento che non lascia scampo, che devasta ogni cosa che tocca, dalla razionalità all’istituzione, fino ad annientarsi. Una parola sconosciuta per Seo-rae, almeno in coreano.
Fortunatamente, Decision To Leave è arrivato anche qui in Italia, candidandosi prepotentemente ad essere il miglior film dell’anno. E non c’è da stupirsi quando Park Chan-wook torna dietro la macchina da presa. Un regista capace di rinnovarsi costantemente, che ha sempre qualcosa da dire, senza mai cadere nella banalità.