I 12 migliori film del 1970 da vedere [LISTA]

Il 1970 ha aperto le porte a quello che forse è considerabile il decennio più innovativo della storia del cinema. Ecco 12 titoli imperdibili.

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9) Tristana – Luis Buñuel (1970)

Tristana

Tristana (Catherine Deneuve) ha perso da poco la madre. Essendo giovane, viene affidata al controverso Don Lope (Fernando Rey), anziano signore che le fa sia da padre che da amante/marito. Un giorno, però, Tristana si innamora del pittore Don Horacio (Franco Nero), con cui fugge in un’altra città…

Catherine Deneuve è la protagonista di un’intensa ma pessimistica storia di oppressione e di riscatto. Tristana, infatti, parte con ideali innocenti sull’amore e sulle relazioni umane, per poi trasformarsi in una donna cinica e spietata. Celebre la scena del sogno, in cui il suo odio nei confronti di Don Lope la porterà a immaginare la sua testa mozzata al posto del batacchio di una campana.

Il perfido anziano è, invece, interpretato da Fernando Rey, che interpreta alla perfezione le contraddizioni del suo decaduto personaggio. Egli, infatti, è conservatore e rigoroso con Tristana ma sessualmente disinibito e dalla parte dei poveri, poi è anticlericale ma ha rapporti con la Chiesa. Insomma, Don Lope incarna perfettamente il sentimento antiborghese del regista.

Stilisticamente, Buñuel studia in maniera meticolosa le geometrie degli spazi e realizza accostamenti di colore tali che ogni fotogramma sembra un dipinto. Volendo dipingere una società crepuscolare, il regista opta per i colori spenti, prediligendo varie tonalità blu. Infine, Buñuel decide di mostrare Toledo come città fortemente claustrofobica: nessun personaggio ha scampo.

10) Giorni e notti nella foresta – Satyajit Ray (1970)

Giorni e notti nella foresta

Quattro amici provenienti da diversi strati della società decidono di fuggire dalla trafficata Calcutta. La meta scelta dai quattro è una foresta sperduta molto lontana dalla frenesia della città. Giunti sul tribale luogo, i quattro corrompono i locali e iniziano a sedurre le donne…

Il tema principale di Giorni e notti nella foresta è la contrapposizione tra tradizione e modernità. Il regista appare disilluso dai giovani indiani, ormai completamente assoggettati al processo di occidentalizzazione che prendeva sempre più piede nell’Oriente. La scena del gioco della memoria nella foresta rappresenta l’apice della contrapposizione tra Occidente e cultura del Bengala. Infatti, i nomi di personaggi famosi pronunciati nel gioco contrappongono diverse personalità di entrambi i mondi.

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La foresta rappresenta la natura incontaminata in cui poter ritrovare le proprie origini e, quindi, se stessi. Ma il materialismo dei quattro amici è tale che essi non fanno altro che imporre il proprio materialismo sui locali. Satyajit Ray può così studiare in profondità i personaggi che porta in scena, utilizzando anche una certa ironia. Il climax finale, invece, è alquanto malinconico.

Stilisticamente, il regista sfrutta la conformazione della foresta per una fotografia artistica, ben diretta da Soumendu Roy. Nei momenti ironici, gli attori sono ripresi in figura intera o piano americano. Viceversa, nel climax malinconico prevalgono mezze figure e primi piani, spesso con il cielo sullo sfondo. La celebre scena del gioco della memoria rappresenta anche nello stile il picco del film, con un montaggio fluido e inquadrature fortemente dinamiche.

11) Heroic Purgatory – Yoshishige Yoshida (1970)

Heroic Purgatory

Una donna di nome Nanako (Mariko Okada) assiste al tentato omicidio della giovane Ayu (Kazumi Tsutsui), avvertendo immediatamente i soccorsi. Quando la signora si reca in ospedale per conoscere le condizioni di salute della ragazza, questa, identificandola come sua madre, la segue a casa. Quando il marito di Nanako, Rikiya (Kaizo Kamoda), incontra Ayu, comincia a ricordare la sua gioventù da rivoluzionario…

Heroic Purgatory è il secondo capitolo della trilogia del radicalismo giapponese iniziata nel 1969, in piena contestazione giovanile. L’evento, però, è visto in chiave fortemente pessimistica, come dimostra l’ultima scena del film. Infatti, Nanako afferma che intende “sbarazzarsi di ciò che considerava Dio”, poco prima che venga messo a fuoco un cartello di ‘vicolo cieco’.

Il regista Yoshida sembra quindi non avere alcuna fiducia nell’uomo e nel progresso, come testimoniano vari elementi del film. Innanzitutto, la narrazione è (volutamente) confusionaria e quasi assente, la realtà e la finzione perdono significato, andando incontro quasi all’astrattismo. Poi, le figure umane appaiono quasi sempre relegate ai lati dell’inquadratura, per lasciare spazio a muri o elementi scenografici.

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A proposito dell’inquadratura, Yoshida e il fotografo Motokichi Hasegawa compiono un meticoloso se non maniacale studio degli spazi. E, se il lato visivo è capace di catturare lo spettatore con la sua forza ipnotica, possiamo dire altrettanto delle musiche di Toshi Ichiyanagi, ex marito di Yoko Ono. La colonna sonora riesce a fare leva sul lato contemplativo dell’opera. Contemplativo dell’autodistruzione umana.

12) Anche i nani hanno cominciato da piccoli – Werner Herzog (1970)

Anche i nani hanno cominciato da piccoli

Hombre (Helmut Döring) viene interrogato dalla polizia sui fatti accaduti al penitenziario in cui si trova. Nonostante l’uomo neghi ogni suo coinvolgimento, attraverso un flashback scopriamo la raccapricciante verità.

Anche i nani hanno cominciato da piccoli è il secondo lungometraggio di Werner Herzog, uno dei maestri del nuovo cinema tedesco. Il cast è interamente composto da individui affetti da microsomia, che si abbandonano a un’escalation di anarchia e violenza ai danni di cose, animali e persone più deboli (che però riescono a ribellarsi).

Nonostante il regista abbia negato la trattazione di un tema particolare, i critici hanno a lungo cercato la o le chiavi di lettura. Alcuni hanno ritenuto che il film rappresenti l’autodistruzione dell’umanità, che si ripete ciclicamente, altri hanno azzardato una raffigurazione delle follie del nazismo.

Molti hanno pensato che Herzog si sia ispirato a Freaks di Tod Browning (1932), ma il regista ha affermato di averlo visto solo successivamente. Insomma, ciò che davvero affascina del film è l’aura di mistero, la stranezza e la vena grottesca che lo permeano. Stilisticamente, Herzog usa massicciamente la camera a mano, con cui effettua diversi virtuosismi. Quando però la tiene fissa, ci regala panoramiche per mostrare le ambientazioni e lunghe inquadrature per ottenere un taglio teatrale.