Recensione Happiness – Il film straniante di Todd Solondz

recensione Happiness
La locandina del film
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Todd Solondz non la manda a dire. Il suo dissacrante capolavoro, Happiness, strappa via la maschera dell’ipocrisia della società borghese, portandone alle luce le perversioni e le pulsioni. Andando a minare le fondamenta delle istituzioni sociali, come la famiglia, al centro di questo racconto corale.

Il regista indaga la sessualità, intesa come strumento delle relazioni umane, e come questa determini l’approccio con gli altri e con se stessi. Quelli di Happiness sono personaggi frustrati, e falliti, che attraverso i propri corpi e la propria sessualità esprimono tutta la loro depravazione.

TRAMA

Tutto ruota attorno alla famiglia Jordan. La figlia Joy ha trant’anni ed è una fallita, in cerca di una relazione che la identifichi, am incapace di farlo. Trish, sua sorella, è moglie, madre e casalinga, si considera realizzata; ma suo marito è un pedofilo. L’ultima sorella, Helen, è una scrittrice di successo, bella e desiderata, vanesia.

Allen, uno dei pazienti di Bill, il marito di Trish è ossessionato dal sesso e importuna telefonicamente delle donne masturbandosi. I signori Jordan, genitori delle tre sorelle, hanno deciso di separarsi dopo quarant’anni di matrimonio, mentre il primogenito di Trish, ormai nel pieno della pubertà, cerca di eiaculare per la prima volta.

CAST

Dylan Baker: Bill Maplewood

Cynthia Stevenson: Trish Maplewood

Rufus Read: Billy Maplewood

Justin Elvin: Timmy Maplewood

Jane Adams: Joy Jordan

Jared Harris: Vlad

Jon Lovitz: Andy Kornbluth

Philip Seymour Hoffman: Allen

Camryn Manheim: Kristina

Lara Flynn Boyle: Helen Jordan

Ben Gazzara: Lenny Jordan

Louise Lasser: Mona Jordan

RECENSIONE

Happiness è una pietra miliare del cinema indipendente americano, il capolavoro di Todd Solondz, che qui  compie la piena maturazione del suo cinema provocatorio, cinico e dissacrante. Offrendo una narrazione politicamente scorretta, e profondamente disturbante, mette a nuda i costrutti e le ipocrisie in seno alla società postmoderna.

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Il racconto corale messo in scena da Solondz, attraverso le vicissitudini della famiglia Jordan e i personaggi che orbitano attorno ad essa,  smaschera perversioni e pulsioni sopite, mai del tutto. Il microcosmo solondziano, popolato da creature depravate e vittima dei propri impulsi, porta alla luce tutto il perturbante nascosto dietro la faccia di perbenismo borghese.

La fauna che prende vita in Happiness è costituita da uomini e donne autoindotti alla rovina e al fallimento incapaci di sfuggire alle quelle pulsioni che pure condannano. E nonostante il loro sia un percorso discendente, non potranno far altro che proseguire verso il baratro, nel tentativo di appagare quel mero desiderio di felicità che li anima.

La felicità illusoria e il piacere che mette in moto l’azione e i personaggi di Happiness coincide con quello sessuale, e in questo modo Solondz indaga il rapporto ambiguo e perverso che le persone instaurano con la propria sessualità. Chiusi nelle proprie case, separati da un cavo del telefono, i personaggi solondziani danno sfogo al proprio erotismo represso e frustrato.

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Lo sguardo perturbante

Da qui deriva una sensazione di straniamento per lo spettatore, che si ritrova  a partecipare a quello spettacolo  corrosivo e in contrasto con le logiche perbeniste della borghesia. Solondz accompagna lo spettatore e offre uno sguardo su queste dinamiche disturbanti, mostrando l’azione senza giudizi, anzi lascia che sia chi guarda a giudicare.

In Happines Solondz ricorre ad una serie di strategie narrative e strutturali, tipicamente hollywoodiani, per creare delle scene con le quali si pongono pienamente in contrasto. Lo straniamento diventa ancora più forte e palpabile davanti ad un’immagine che scuote, come lo sguardo di un pedofilo che si posa sul viso di un bambino. E come se non bastasse ciò a scuotere, il regista enfatizza ulteriormente associando a quello sguardo una melodia ed un punto di vista registico in chiave romantica.

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È una costruzione tradizionale della tipica scena dell’innamoramento, ma che contrasta fino alle basi con il contenuto della scena stessa e i corpi che la abitano. Questo è uno degli aspetti più interessanti del cinema di Solondz, come riesca a lavorare sui corpi e sugli attori riuscendo a delineare situazioni, in totale contrasto con la struttura filmica della scena, tanto eloquenti ed espressive.

Ciò emerge prepotentemente dal rapporto che si instaura tra alcuni personaggi, in primis il rapporto tra il dottor Maplewood, pedofilo sovversivo incapace di celare le propri pulsioni, con il figlio Billy, con il quale si pone con premura e gentilezza, come un padre modello. Ma questo rapporto scuote lo spettatore fino ai limiti del sopportabile, lasciando trapelare, senza mai esprimere chiaramente, una  connotazione ambigua e condannabile.

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La sessualità frustrata

Solondz quindi riflette su come proprio la sessualità e i corpi incidano sulla relazioni con gli altri, andando a minare la norma alla base della società. Quella che il regista mostra in Happiness è la condizione di infelicità insita nella società stessa, attraverso la rappresentazione di un microcosmo familiare al collasso.

Le figure che prendono vita hanno una qualità posticcia, in un precario equilibrio tra naturalezza e artificiosità, attraverso le quale prende forma la consapevolezza dell’ipocrisia sulla quale sono costruite.

Il regista si rivela abilissimo nel creare un meccanismo filmico di straniamento attraverso la costruzione di uno sguardo perturbante, derivante dal contrasto tra le situazioni percepito e il contesto sensoriale. Un meccanismo che finisce per creare un microcosmo pervaso da un pessimismo che corrompe ogni cosa. E che attraverso lo smascheramento cinico delle sua ambiguità e contraddizioni porta al collasso i dogmi e gli schemi sociali. 

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