Recensione “Submergence”, L’ultimo fallimento di Wim Wenders

Recensione Submergence, l'ultimo film di Wim Wenders con protagonisti James McAvoy e Alicia Vikander. Insieme in un melenso melodramma moderno

Recensione Submergence
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Un nome come quello di Wim Wenders dietro la macchina da presa avrebbe fatto sperare che Submergence potesse essere un buon film. Non è stato così. Non basta il tocco dell’iconico regista tedesco per impedire alla pellicola di sprofondare negli abissi del melodramma. Non basta neanche il talento di James McAvoy a sorreggere un film che non sa cosa vuole essere.  

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Tratto dall’omonimo romanzo di LedgardSubmergence ha tutti gli elementi per essere un polpettone melenso e dalla fisionomia indistinta. Danielle una biomatematica marina incontra sulle spiagge della Normandia James ingegnere idraulico, o meglio spia britannica. Presto si innamorano, e ancora più presto sono costretto a salutarsi, impegnati entrambi con le rispettive missioni. Lei parte alla volta del mar Glaciale Artico, intenta a studiare la zona “adopelagica”, per scoprirne i segreti. Lui impegnato in una missione segreta sotto copertura in Somalia, dove finisce prigioniero di terroristi di Al Qaida. Entrambi con l’obiettivo di trovare una soluzione per la salvezza dell’umanità. 

Recensione Submergence

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Qui il film però sembra non avere un corpo unico e coerente, perché i due percorsi narrativi lottano per la propria autonomia al punto da lacerare l’integrità filmica. In Submergence, potremmo dire, sono racchiusi due film diversi, entrambi limitati dall’esigenza di farne un unico film. Allora lo spettatore non riuscirà ad appassionarsi, perché concentrato sulla storia di uno o dell’altro protagonista. Incapace poi di trovare piena soddisfazione. Neanche la melensa e già vista storia d’amore riuscirà ad appassionarlo, per momenti e dialoghi dotati di una pochezza di fondo. Si perché anche quelli risultano banali e ridondanti, e non aggiungono nulla di nuovo al panorama cinematografico contemporaneo.  

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Wenders, e la scrittrice Erin Digman, cercano di inserirsi all’interno di dibattiti ancora aperti circa l’ecologia e la lotta al terrorismo, ripetendo quanto già detto. Sfuma così anche quella piccola vena di filosofia esistenziale che poteva risvegliare un minimo di interesse, riuscendo a far crollare il mito di Wim Wenders. Il regista tedesco sembra voler riprendere un discorso utopistico e visionario caratteristica dei primi anni della sua carriera. Qui risiede il suo limite, nell’incapacità di adattare sé stesso ad una dimensione cinematografica contemporanea. Sfuma poi se si pensa anche all’irrisolutezza con la quale si chiudono le due storie, che risultano monche nel finale. Da qui un senso di amarezza e incompiutezza per il cammino interrotto al quale sembravano voler condurre i personaggi.  

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Neanche da un punto di vista registico si potrebbe dire bene di Wenders in questo film, impegnato in riprese piuttosto scolastiche e languide, se non fosse per la naturale bellezza dei paesaggi filmati. Forse unico punto a favore del film, che è ambientato in luoghi di una bellezza tale da mozzare il fiato, è il buon uso della fotografia. Tornano spesso l’acqua e il buio, quella della profondità dell’oceano, di un pozzo o di una cella, come elementi che sembrano unire i due personaggi e fare da fondamenta per la poetica del film. Entrambi i protagonisti lottano con il buio, in senso materiale o figurato, come quello che si annida nella mente dei jihadisti, risultando il loro sentimento vincolato in questo modo. 

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Nella retorica di Wenders, di cui è piena il cinema, sembrano volersi annidare intenzioni di riflessioni filosofiche, che tuttavia si legano al melenso melodramma commerciale messo in scena. Dimostrando purtroppo l’incapacità e la totale inadeguatezza del regista di spicco del nuovo cinema tedesco di inserirsi nel contesto contemporaneo.    

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