Abbiamo intervistato maggio a maggio

maggio
Condividi l'articolo

Una chiacchierata al telefono con il fiato corto, parlando di fiato corto.

Avevamo augurato all’emo-rapper maggio di avere il fiato corto per sempre, nella recensione del suo primo EP. Però c’era qualcosa che ancora non ci tornava, primo su tutti questo genere così fragile, che sembra scricchiolargli sotto i piedi come una sottile lastra di ghiaccio. Così gli abbiamo telefonato per chiedergli cosa ci fosse di così affascinante nel mostrarsi debole e nel mostrare debole ciò che lo circonda; dall’altra parte del telefono, abbiamo avuto la sensazione che si chiudesse un cerchio nel quale ci siamo noi, Roberto (il vero nome di maggio) e un paio di generazioni di ragazzi di provincia.

La prima cosa che dobbiamo chiederti per forza, perdonaci la banalità, è l’origine del tuo nome d’arte.

Allora, in realtà è tutto molto causale, è nato prima di scegliere di avere un nome d’arte: una mia amica di Roma, non sapendo come soprannominarmi, dato che mi chiamo Roberto ha iniziato a chiamarmi Roberto Baggio; di lì è diventato Roby Baggio, poi cazzeggiando è diventato Roby Maggio, come se chi lo pronunciasse avesse il raffreddore, e poi Roby mi è sembrato anacronistico quindi è diventato semplicemente “maggio”, tutto questo prima che iniziassi a rappare. Quando ho cominciato a fare musica ho deciso di farmi chiamare maggio, tanto ormai mi chiamavano già tutti così.

Il disco è uscito il 7 maggio, il tuo nome d’arte era maggio, quindi pensavamo fosse tutto parte di un piano!

No, anzi! Tra l’altro, anche quando rappavo da solo, in cameretta, mi sono detto: “Wow, ‘maggio’ non me lo sono scelto ma ci posso fare un sacco di incastri!”. Poi con le scadenze che avevo, e che non ho rispettato, sono finito veramente a maggio, e a maggio farò il mio primo concerto (il 24 maggio sul palco del MiAmi, ndr).

Partiamo dalla tua cameretta, partiamo dall’inizio: ti definisci “emo rap”, ma il tuo percorso musicale è iniziato con l’emo o con il rap?

Penso con entrambi. Io sono nato e cresciuto a Roma, e da piccolo ascoltavo un po’ quello che passava in radio, quindi ricordo che per esempio verso il 2000/2001 mi piacevano gli Articolo 31 e roba del genere; crescendo, arrivato al liceo, avevo ancora qualche contaminazione rap ma non lo ascoltavo molto.

In quel periodo, circa 2008/2009, scoprii l’emo e lo screamo ma avevo molti amici che ascoltavano Noyz Narcos, il Truceklan e il rap in generale: io mi facevo influenzavo da loro, poi a casa andavo a leggermi le recensioni dei dischi sulle webzine perchè cercavo un certo tipo di musica, non per genere ma per sensazioni. Su Google cercavo roba tipo “sound malinconico estivo” e mi buttavo su qualsiasi cosa trovassi. Sono andati a braccetto i due generi, in qualche modo.

In Italia qualcosina di emo-trap l’avevamo sentito, ma non abbiamo avuto testimonianze di rap “emozionale” che non fossero trovate commerciali dei rapper affermati. A livello di scrittura, come si articola la relazione fra le due influenze musicali?

Fortunatamente è un processo che ho raffinato negli anni, perchè io non rappavo fino a fine estate/inizio autunno 2016, però scrivevo racconti, poesie o quello che mi andava già dal 2012, e la mia influenza a livello di liriche l’ho presa prevalentemente dall’ambito emo, non solo musicale ma culturale: alcuni romanzi di formazione o comunque libri, perché mi piaceva il modo in cui scrivevano.

Poi mi sono incontrato con un amico di collettivo e ho pensato: “Ok, però è bello rappare. Tanto non so cantare, quindi perché non provare a rapparci su, che tanto rappare è bellissimo?” Anche perché io sono fissato con gli incastri e con il non essere troppo regolare; mi piace proprio rappare, la complessità di incastrare assonanze, consonanze, rime doppie, triple e roba del genere. Per cui a me viene molto spontaneo scrivere come fanno molti gruppi emo soprattutto della scena italiana, ho una vena malinconica ma anche ironica (non mi piace prendermi male), però mi piace rappare: ci ho messo due anni per risultare convincente a me stesso, non essere né troppo emo né troppo rap. Anche perchè in realtà “emo” me l’hanno detto, non mi sono definito; poi catalogare serve all’ascoltatore, è una necessità, ma è sempre meglio ascoltare senza partire prevenuti.

LEGGI ANCHE:  Marco Giallini: «È pieno di gente che pippa cocaina e alza il dito contro una canna»

“Emo” è sempre sembrato un termine pericoloso.

Lo è!

Ecco, appunto! A parte il fatto che nelle persone meno interessate alla musica richiama alla mente i ragazzi truccati con i frangettoni, il termine “emo” va ad evocare moltissime sensazioni, che emergono da ogni aspetto del tuo progetto musicale, dalla musica alle grafiche.

Sì, ed è stato un processo spontaneo. Io ho studiato come grafico, quindi quando vado a lavorare per me stesso mi viene naturale essere ciò che sono: a livello di atmosfera la mia fortuna è stata propri aver studiato grafica, mentre a livello sonoro sono stato fortunato ad incontrare il mio producer zteph (Stefano Tancredi, ndr) che ha il mio stesso background, forse un po’ più hardcore. Abbiamo molte influenze in comune, io mi ascolto magari i Gazebo Penguins o i Riviera mentre lui ascolta anche roba un po’ più screamo, tipo i Raein.

Non ci siamo incontrati a tavolino, non abbiamo programmato nulla, è stata una coincidenza e a mio parere è stata una fortuna gigantesca, perché non c’è nulla di studiato: la nostra vena emo è così forte perché è quello che vogliamo veramente tirare fuori, e alla fine sembra così convincente anche per gli altri perché è così personale.

In effetti “personale” è un’altra parola che si addice alla tua musica e soprattutto ai tuoi testi. Le situazioni che descrivi sono sicuramente verosimili, ma sono tutte quante realmente accadute o lasci lavorare anche l’immaginazione?

Allora… Proviamo a fare questo gioco: dimmi uno dei cinque pezzi dell’EP.

Direi “Sconto”.

Sconto, seconda traccia dell’EP.

Beh, Sconto l’ho scritta quando ho incontrato zteph per la prima volta; piazza Udine è più o meno la zona in cui vivo io e Sconto me la sono immaginata, partendo da situazioni realmente accadute; parlo di zone da cui passavo spesso per andare al lavoro, e chi mi conosce sa benissimo a cosa mi riferisco. Ad un certo punto dico: “al massimo mi fermo prima di questa mattina / dopo aver dormito col mio amico tipo giù in cantina”: ecco, io e un mio amico abbiamo dormito davvero in un loft interrato senza finestre, lo ospitavo io ma gli altri inquilini non lo sapevano.

Tutti i pezzi parlano di qualcosa di reale, a parte qualche citazione come “Parto e torno presto / cowboy dallo spazio”; parlo sempre di qualcosa di vissuto, di toccato con mano, e infatti tutti quelli che mi conoscono puntualmente ricordano le situazioni di cui sto parlando, so che sono cose “mie” quindi non devo immaginare troppo per descriverle, voglio solo trovare le parole giuste e togliere quella vena troppo personale che “nasconderebbe” il pezzo all’ascoltatore.

Quello che mi piace è oggettivare una situazione personale e farci ritrovare qualcun altro, e secondo il più grande sbaglio che possa fare chi decide di buttarsi in questo genere è voler fare qualcosa che “tira”, anche solamente in maniera spontanea, del tipo “mi piace, quindi lo uso”: non è sbagliato, ma rischi di cadere nel clichè. Io mi faccio molte, molte pippe mentali riguardo a questo, se mi sto riferendo troppo a qualcosa o a qualcuno lascio perdere.

Lo ammetto, è tutto molto personale, alcuni sostengono addirittura troppo; però cerco di mantenermi almeno un po’ anonimo, elimino quei dettagli che farebbero male a me come persona, perchè poi non voglio parlare troppo di me.

Il disco si chiama “Manuale di sopravvivenza per fiati corti”. Di solito, un manuale spiega come risolvere determinati problemi, ma nessuno dei pezzi contiene una vera e propria “soluzione”: è un manuale che hai composto per te o per chi ti ascolta?

Io parto sempre da me, perché quando si fa qualcosa del genere bisogna sempre essere molto critici, ma anche autocompiacersi: so che alcune persone che nella scrittura, nella musica, nell’arte ci mettono del personale a livello creativo tendono ad essere critiche o a non riascoltarsi, non rileggersi, non riguardarsi… Io invece trovo in quello che voglio fare una valvola di sfogo: quando finisco una strofa sono felice, anzi, tocco picchi di felicità che non tocco nel resto delle mie giornate. L’aver prodotto questo disco è stato sicuramente un manuale di sopravvivenza per me, però poi tutti i pezzi che faccio nel mio cervello non finiscono mai male: c’è sempre una presa di posizione molto rigida nei confronti delle ansie, delle paranoie, della negatività.

LEGGI ANCHE:  Stranger Things, la Quarta Stagione non sarà l'ultima: parola dei creatori

A me non piace pensare che il mio “fare emo” non sia solo autocommiserazione, quindi per esempio anche in Montella, che mi dicono tutti essere il pezzo più struggente, chiudo con: “Ero solo un coglione”, nel senso che tutto quello che vedevo e che ho descritto nel brano era solamente un punto di vista, ero solamente io a volermi vedere solo. Magari ad un primo ascolto sembra tutto “grigio”, ma io non riesco a vederla così, e infatti l’ultimo pezzo, Piano Rialzato, è stato proprio catartico, perchè è andato a chiudere tutto quanto aprendo una nuova prospettiva: “Tante cose da farmi mancare / un piano per / ricominciare”. Insomma, spero sia un manuale di sopravvivenza anche per gli altri. Mi farebbe ulteriormente felice, sapere di aver fatto qualcosa di utile.

Abbiamo parlato, poco fa, di influenze culturali, più che musicali. Quindi, raccontaci innanzitutto i tuoi principali riferimenti musicali e soprattutto i tuoi riferimenti culturali, come ad esempio i romanzi di cui hai parlato prima.

Inizio dai miei riferimenti culturali: io mi ritrovo in tutti quei personaggi un po’ scapestrati che ad un certo punto hanno un’illuminazione e decidono di prendere in mano la propria vita. Ogni volta che ritrovavo queste situazioni adolescenziali, semplicmente mi sentivo capito, quindi quando lessi per la prima volta Il Giovane Holden di Salinger mi gasai tantissimo. Andai ripescando tutti quanti i romanzi che seguivano quella scia, romanzi di formazione sostanzialmente, quindi ti potrei dire Salinger come Mia sorella è una foca monaca di Frascella, qualche libro di Ammaniti (Ti prendo e ti porto via mi piace tantissimo, anche se è più preadolescenziale).

Da qui ho preso il modo di descrivere certe immagini, la scelta di non descrivere le cose più evidenti ma quei dettagli che le persone si perdono. Ma posso citarti anche qualche libro di Stefano Benni, racconti e poesie di Raymond Carver che adoro perchè sono molto realistici, e in realtà anche vari film che però ora non mi vengono in mente. Spero che qualcuno, prima o poi, abbia la voglia di realizzare un adattamento cinematografico de Il Giovane Holden, ma temo sia un’impresa durissima.

Sappiamo che farai tappa al MiAmi per la tua prima esibizione live. Hai già pensato a come portare avanti questo progetto? Sei intenzionato ad “aprirti” ad altre forme di espressione o credi di aver trovato quella che ti si addice e nella quale affermarti definitivamente?

Io per il momento sono felicissimo di essere riuscito a fare anche solo questo EP, che praticamente è fatto a budget zero: con i soldi che mi avanzavano dal mio lavoro da grafico ho comprato un microfono, poi ho incontrato zteph e tutto si è sviluppato con una tale armonia e un tale sentimento spontaneo che al momento non desidero altro. Poi finché riesco a mettere mano a tutto quello che fa da contorno alla musica sono ancora più felice.

Per ora continuiamo così, ci organizziamo ancora in maniera molto tranquilla, come se tutto fosse ancora un sogno che non si realizzerà mai. In ogni caso, in questi due anni ho scritto davvero tanti pezzi e sto continuando a registrare demo, per cui per il momento sicuramente continuerò così. Magari, se dovessi trovare sfogo in qualche altro campo, mi ci butterò, ma solo se avrò la certezza di poterlo fare al meglio, perché ci ho messo due anni per il primo progetto, non ero mai soddisfatto.

L’artista con cui vorresti, o riterresti necessario, fare un featuring?

Non ci avevo ancora pensato, ed è complicatissimo! Ti dirò, ci sono molti artisti della nuova scena italiana che mi piacciono un sacco,; un ragazzo con cui mi piacerebbe fare un featuring potrebbe essere Bresh della Z4 Gang, perchè ascoltando Tedua, Vaz Tè, lo stesso Bresh ho iniziato a convincermi di potermi esprimere nella maniera che mi pareva, di entrare in questa cerchia “emo rap”.

Hai già in programma un tour?

Allora, dovremmo suonare il 1 giugno a Roma, il 5 luglio in Puglia e stiamo cercando di chiudere altre date. Non vedo l’ora, anche perchè dovremmo annunciarle con delle grafiche, come si deve, insomma: ci facciao un po’ di gavetta e vediamo cosa succede live.

Continuate a seguirci sulla nostra pagina Facebook ufficiale, La Scimmia sente, la Scimmia fa