I migliori film italiani del ventunesimo secolo

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Fortemente ancorato al cinema degli anni d’Oro, al cinema di Fellini e Bertolucci, il cinema italiano assume agli occhi dello spettatore medio l’aspetto di un paesaggio infertile, sterile, senza una forma, incapace di generare frutti degni di nota.

Eppure gli anni che hanno seguito il 2000, a partire dal 2001 fino ad arrivare ai giorni nostri, si sono rivelati essere per la filmografia italiana un periodo florido e fecondo, creativo e inedito, in grado di rinnovare la tradizione.

Ecco quali sono stati, secondo La Scimmia, i migliori film italiani del 21esimo secolo.

La stanza del figlio di Nanni Moretti (2001)

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Due genitori e due figli. I primi disponibili, sensibili e comprensivi, ma pur sempre severi, esigenti. Gli altri apparentemente tranquilli, due esistenze all’apparenza lontane dalle inquietudini problematiche dell’adolescenza. Una famiglia come tante, dove domina l’armonia. E poi, all’improvviso, il lutto più temuto: la morte del figlio.

Acclamato vincitore della prestigiosa Palma d’oro alla 54° edizione del Festival di Cannes, La stanza del figlio si caratterizza come un lucido dipinto di un lutto che, arrivando inaspettato simile ad una furia devastatrice, sconvolge e massacra gli equilibri familiari, devastando la tranquillità del vivere.

Con la sobria eleganza che definisce la sua intera filmografia, Nanni Moretti ritrae la vuota desolazione che la morte lascia dietro di sé, restituendo in modo intimamente realistico una storia tragica e toccante, riconsegnata nella sua completezza, senza mai essere volgare, senza mai essere banale agli occhi dello spettatore. Tra i migliori film italiani usciti nel 21° secolo, La stanza del figlio riesce a scuotere e a turbare lo spettatore grazie al dolore trattenuto e mai urlato che lo caratterizza, così come i sentimenti che lacerano le profondità degli animi dei protagonisti. Sentimenti che, a causa della loro genuina drammaticità, risultano essere taglienti come lame affilate.

L’imbalsamatore di Matteo Garrone (2002)

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La bellezza puerile incontra la bruttezza. La bruttezza che, inorridendola, affascina e seduce la bellezza puerile. Il demone che incontra Efebo.

Una banale visita allo zoo si trasforma in un evento estremamente importante, destinato a cambiare un’esistenza: Valerio, giovane cuoco, incontra Peppino, l’imbalsamatore. La sua adolescenziale curiosità, accompagnata alla  sua ingenuità e al suo essere facilmente influenzabile, lo portano ad accettare le proposte dell’altro, a diventare suo apprendista.

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Presentandosi come un debutto stupefacente, il primo film firmato da Matteo Garrone si muove sapientemente attraverso atmosfere lugubri e tenebrose, attraverso l’angoscia e la confusione, tra la paura e il desiderio evocato da quest’ultima, dando vita ad un’opera cinematografica che trova la sua massima attrattiva nella repulsione che esercita sullo spettatore.

Oltre a contenere in sé le principali cifre stilistiche del regista romano — da tale pellicola si può, infatti, facilmente intuire la piega presa dall’intera cinematografia di Garrone —, L’imbalsamatore si eleva a rappresentante di un certo cinema che, positivamente campanilista, mostra realisticamente uno spaccato inedito di italianità, diventando emblema di un’Italia oscura e cupa, nascosta e misteriosa. Un’Italia estremamente affascinante, che raramente si mostra ad occhi indiscreti. 

Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino (2004)

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Spazi che si dipanano, soli e desolati. Spazi claustrofobici che emanano isolamento, abbandono e rassegnazione. Spazi silenziosi in cui si sente, lieve, l’eco di parole non dette. Spazi essenziali che si trasformano in metafore esistenziali. Questi sono gli spazi di Le conseguenze dell’amore, narrazione di un’esistenza trascorsa nella ripetizione di gesti, parole e pensieri. Un’esistenza di solitudine e malinconia, tristezza e desolazione. 

Seguendo ossessivamente la vita prevedibile di un inetto, la macchina da presa di Paolo Sorrentino esamina il limbo in cui vive colui che trascorre le proprie giornate in attesa della redenzione, in attesa di quello che possa finalmente trasformarlo di nuovo in uomo. 

Con Le conseguenze dell’amore,  Paolo Sorrentino — aiutato dall’impassibile Toni Servillo, il quale regala allo spettatore l’ennesima magistrale ed indimenticabile interpretazione — mette in scena la tragicomicità della vita, soffermandosi sull’esasperazione dei caratteri che, oscillando tra drammatico e ironico, tra serio e grottesco, definiscono l’esistenza umana. L’occhio elegante del regista napoletano analizza le rughe del volto di un uomo intrappolato nella prigione della banalità e della monotonia, di un uomo che si è trasformato, con l’accumularsi degli anni e delle delusioni, in un automa. Impassibile, gelido, senza vita.

Il caimano di Nanni Moretti (2006)

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Il primo lungometraggio a cui dare vita. I fondi da cercare incessantemente. Un film su Silvio Berlusconi da realizzare: Il caimano. Giovane ed ambiziosa sognatrice, Teresa Mantero è una regista dalle enormi aspirazioni che trova un complice in Bruno Bonomo, complicato produttore cinematografico demoralizzato da insuccessi lavorativi, dal peso dei debiti e da quello di un matrimonio in crisi.

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Riflessione metanarrativa sull’industria cinematografica, all’interno della quale il regista continua da anni a rappresentare un illustre esponente, Il caimano riesce a stupire il pubblico, a stregarlo e ad instillare in lui la volontà di indagare, di conoscere, di cercare di capire la desolante realtà che lo circonda.

In linea con la totalità della produzione cinematografica di Nanni Moretti — presente all’interno del film, insopportabile come solo lui sa essere —, il film si presenta come un’opera fortemente personale, nella quale vengono materializzate le ansie e le incertezze, le speranze e i desideri dei sognatori. Da sempre estremamente politico, il regista si sofferma a studiare la condizione italiana a lui contemporanea, originando una curiosa riflessione sulla società in cui i suoi personaggi vivono ed agiscono. 

Privo di un intento moralizzante, Il caimano è, tuttavia, lontano dall’essere un film volto all’estetizzazione di una particolare ideologia: i suoi protagonisti sono personaggi concreti, personaggi incostanti, personaggi incerti, personaggi a tratti sconclusionati. Come persone in carne ed ossa.

Gomorra di Matteo Garrone (2008)

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Esistenze che devono scontrarsi quotidianamente per mantenersi in vita. Esistenze alle prese con la violenza che caratterizza la società odierna. Una società che, perennemente in movimento, soffoca l’individuo, torturandolo, massacrandolo, annientandolo.

Dando vita ad un macrocosmo apparentemente irreale, insolito e distante, sospeso tra Aversa e Casal di Principe, attraverso Gomorra, Matteo Garrone materializza lo scontro tra reale e ideale, tra l’entità  puramente astratta dei valori etici e l’egoistica materialità per la lotta per l’esistenza.

Ispirandosi all’omonimo romanzo “documentaristico” di Roberto Saviano, pubblicato nel 2006,  e rifiutando totalmente i tradizionali punti di riferimento di un particolare cinema di genere — quello che si sofferma sulla criminalità, sui gangsters e sulla violenza —, Gomorra si trasforma in un credibile ritratto dell’Italia più sporca, quella della violenza, quella fatta di banconote e droghe, di proiettili e potere. Una discesa all’interno del caldo soffocante dell’inferno. Gli inferi che si concretizzano in terra.