Altri 5 dischi che hanno superato il primo album

Primo Album
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Un’altra playlist di 5 dischi fantastici che hanno bissato il successo (o l’insuccesso) dell’opera prima dei gruppi che li hanno concepiti.

Contrariamente a quanto si possa pensare, le band che riescono a partorire un disco migliore del primo esistono, e sono anche parecchie. Mentre nella prima parte volevamo solo sfatare il mito del “primo album migliore in assoluto”, stavolta vogliamo addirittura dimostrarvi che di band capaci di maturare e migliorare sotto ogni aspetto ce ne sono più di quante possiate immaginare.

1. The Smashing Pumpkins – Siamese Dream (1993)

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Che l’arte provenga solo dal dolore, è una idiozia vera e propria. Che l’arte più toccante e capace di colpire sia la sublimazione del dolore, è parzialmente vero. Ma agli Smashing Pumpkins questo “dolore” anonimo e ormai banale, in un 1991 che vedeva il grunge partire da Seattle alla conquista del mondo, non piaceva per nulla. Loro volevano mescolarlo alla rabbia, allo spleen adolescenziale, alla malinconia, alla tristezza per l’essere stati lasciati dalla fidanzata e a tanti, ma tanti Big Muff. E proprio nel 1991 esce Gish, primo album ufficiale della band, che però sembra ancora una demo  registrata in casa: distorsioni allucinanti ma ancora troppo secche, senza echi giganteschi o muri di suono, linee vocali rubacchiate un po’ a papà grunge e un po’ ai Dinosaur Jr., testi un po’ sofferenti, un po’ malinconici, un po’ incazzati.

Ventisei mesi dopo, anno 1993, vede la luce Siamese Dream, e gli Smashing Pumpkins finalmente hanno scelto da che parte stare: le chitarre granitiche che squarciano la delicatissima trama di Mayonaise dicono già tutto, così come la gloriosa ed esagerata Silverfuck o l’implorante Disarm . Finalmente i pezzi dei quattro di Chicago hanno una propria identità, sono i loro pezzi. Sembra che qualcuno durante le prove abbia ripetuto in continuazione a Corgan: “Più tristezza! Più distorsione! Più tristezza!”. Sì, insomma, gli Smashing Pumpkins ora sono tristi e basta. Ma va benissimo così.

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2. Dutch Nazari – Amore Povero (2017)

dutch nazari

Pop o rap? Indie o cantautorato? Perché non tutto quanto insieme? Detto così sembra facile, e anche interessante. Ma mescolare tutto quello che gira nella musica italiana senza essere troppo indie, troppo rap o troppo Battisti o senza risultare dei doppioni è la sfida definitiva per qualsiasi artista che non voglia solo gettarsi sul carro dei vincitori (dell’itpop, in questo caso). Dutch Nazari, classe 1989, dopo alcuni lavori con la crew padovana Massima Tackenza e un paio di EP, nel 2016 pubblica Diecimila lire. Un manifesto conscious rap a metà tra la cruda cronaca della guerra (Jenin) e l‘autoironia di chi si prende in giro da solo perché ha capito che è l’unica soluzione in un mondo di finti sarcastici e di comici che non fanno ridere (Speculation, Diecimila lire).

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Non c’era nulla che fosse urgente migliorare, a dire il vero. Ma Dutch è riuscito a spingersi ancora un po’ più in là abbracciando e consegnando al pubblico le sue sensazioni più profonde nel successivo Amore Povero, uscito esattamente un anno dopo.

In una scena in cui “artisti indipendenti si autocensurano i sentimenti, perché l’amore, fra gli altri argomenti, non è abbastanza underground per i loro clienti” ( lo canta Nazari stesso in Proemio, la traccia d’apertura di Amore Povero, che difatti è l’introduzione di quella che si rivelerà essere una poesia lunga altri dodici brani) e ” la radio trasmette canzoni d’amore scritte da artisti che non amano, fatte con un solo parametro, sperando di fare il disco di platino” (anche questa una frase di Proemio), Dutch Nazari ci porta nel suo mondo di hangover, solitudine e amori non corrisposti. E se già risultava credibile, infilando la sua storia nelle sue canzoni si guadagna un posto nell’Olimpo degli artisti sinceri, in qualche modo sempre meno affollato.

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3. Bon Iver – Bon Iver, Bon Iver (2011)143139 md

Brutta scena, l’indie folk; un giorno sei il miglior artista dell’anno, il giorno dopo devi vendere chitarra acustica e banjo e passare all’elettronica, se vuoi continuare ad avere un pubblico. Anche i Bon Iver ci sono passati, con l’ultimo 22, A Million (2016), che comunque non è uno scivolone easy-listening. Ma fortunatamente, cinque anni prima, hanno pubblicato quel capolavoro immenso che è Bon Iver, Bon Iver.

Bisogna specificare sin da subito che la mente malata di Justin Vernon, voce-chitarra-piano-eccetera del gruppo statunitense, si è dimostrata una macchina capace di modellare brani incredibili sin dal primo  For Emma, Forever Ago (2007): melodie fredde come l’inverno del Wisconsin che però ti riscaldano, ti accolgono, ti fanno sentire a casa. Ma Vernon non è contento: si chiude in una ex clinica veterinaria adibita a studio di registrazione e ne esce con dieci tracce gelide, cristallizzate, immobili, che si librano sulle pianure ghiacciate e ascendono pian piano, lasciando un ricordo indelebile. L’intero disco sarebbe potuto finire dopo Perth, la traccia d’apertura. Un album sospeso tra la foresta e le nuvole, l’opera prima ed il testamento di chi è rimasto congelato ma da quell’inverno non vuole uscire.

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4. Murubutu – La bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane (2013)

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La dimostrazione vivente che anche i professori possono sbagliare. Murubutu, nome d’arte di Alessio Mariani, professore di storia e filosofia a reggio Emilia e mentore del conscious rap italiano, è attivo dal 1991 con una capacità lirica impressionante e un bagaglio culturale che farebbe rabbrividire Alberto Angela. Il suo primo album solista, Il giovane Mariani e altri racconti (2009), è tanto liricamente raffinato quanto poco accessibile a chiunque non sia un amante del sapere in tutte le sue sfaccettature: complesso, contorto, criptico, chiuso in sé stesso, perché la cultura non è mai commerciale.

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Dopo quattro anni, a 38 anni suonati, Murubutu ha il coraggio di mettersi in discussione e aggiungere qualche ingrediente alla sua stessa ricetta per il disco perfetto: produzioni meno aggressive ma sempre lo stesso labor lime e dal calderone esce fuori La bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane, che finalmente porta la cultura alle orecchie di tutti e si apre a passaggi commoventi ( La collina dei pioppi). Perché la cultura non è commerciale ma deve essere accessibile a tutti. E il suo ambasciatore lo ha capito benissimo.

https://open.spotify.com/album/2SJAluvGVYptRJ47SvDWTL?si=0KUcS5PCSa-Vbm4EelSL5Q

5. Neutral Milk Hotel – In The Aeroplane Over The Sea (1998)

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Partiamo dal presupposto che per suonare nei Neutral Milk Hotel ci vuole una dose di follia e di eroina in corpo parecchio superiore alla media mondiale. Se questa follia passa per la mente ancora più folle di Jeff Mangum, può diventare un caos totale o un’opera trionfale. Ammettiamo che il primo lavoro dei bifolchi più geniali del mondo, On Avery Island, datato 1996, non apparteneva alla seconda categoria. Rumoroso, con cenni di drone music e psichedelia a tratti fastidiosa che ti faceva esclamare la stessa frase che si sente pronunciare da molti alla fine di un film di David Lynch: “Ma che cazzo è sta roba?”

Evidentemente a Mangum non bastavano i chili di allucinogeni assunti durante le registrazioni del primo disco. E qui, apriti cielo, l’illuminazione: perché non comporre un concept album basato sull’interpretazione del diario di Anna Frank? Di motivi per non avventurarsi in questo disturbante progetto ce n’erano a migliaia, ma ovviamente meno sono le possibilità di successo, più la mente di Jeff si spinge oltre il limite. Il risultato? In The Aeroplane Over The Sea, anno 1998, pilastro dell’indie rock.

Un flusso di coscienza cantilenante che dalla voce nasale di Mangum passa attraverso chitarra acustica, banjo, cornamusa, basso, tromba, sassofono e solo Dio sa quanti altri strumenti. Un vero e proprio diario che mescola l’infanzia di Anna Frank a quella di Mangum stesso, con criptici riferimenti all’olocausto e ad una spiritualità panteista che non agisce sul destino dell’uomo ma rimane a guardare, incurante. Paradossalmente, la sovrabbondanza di strumenti e di temi nel disco è solo una cornice per far risaltare il vero protagonista: il piccolo, inutile essere umano.

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