Melancholia di Lars Von Trier- recensione

Lars Von Trier con Melancholia ci ha donato una piccola parte di sé. In questa pellicola, il regista pone tutto il suo dolore innalzandolo a grande arte

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Melancholia, ovvero come appaiono piccole le convinzioni umane dinanzi all’imprevedibilità della vita

Spesso si dice che non si conosce realmente se stessi fino a quando non ci poniamo dinanzi ad una situazione limite. In un momento si può essere dei depressi cronici e quello dopo un eroe, un maestro, una guida; in un momento puoi essere solido e austero e quello dopo un ladro o un vigliacco. Sono le sfide, gli imprevisti, che fanno emergere certe inclinazioni dell’animo, che senza questi, probabilmente, non risalirebbero mai a galla.

Lo sapete qual è uno degli animali più feroci in un combattimento all’ultimo sangue? La lepre!

Ovunque ci giriamo, troviamo una conferma a questa teoria, che appare vera, assoluta, insindacabile; al punto che Lars Von Trier ha deciso di farci un film: Melancholia.

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Un pianeta, chiamato Melancholia, si sta pericolosamente avvicinando alla terra. Intanto, lo sguardo del regista scivola su un avvenimento in particolare: il matrimonio tra Justine (Kirsten Dust) e Michael (Alexander Skarsgård). Mentre il pianeta nuovo continua la sua avanzata verso la Terra, Von Trier ci porta nella vita di Justine e dei suoi parenti ed invitati.

Peculiarità del film è la collocazione del finale della storia. Questo viene posto all’inizio, ove assistiamo all’apocalisse e al destino dei personaggi. Melancholia è di per sé la consapevolezza della fine già dal principio: le musiche di Wagner, gli orologi di Dalì e le allucinazioni premonitrici di Justine. È il raccontare ciò che è celato sotto un’evidenza, sotto una verità già nota alla protagonista e a noi pubblico, nel segno di emozionare grazie alla mera esperienza e niente più.

Toltosi questo peso, Von Trier può liberamente dedicare il resto del tempo a ciò che tiene di più, vale a dire l’introspezione psicologica, la descrizione del disturbo depressivo, la reazione ad eventi traumatici e distruttivi. A questo punto, senza aver paura di spoiler fastidiosi, possiamo rilassarci e addentrarci nell’analisi degli aspetti appena elencati.

«Io.. arranco tra tutti quei fili di lana grigi che mi si attaccano alle gambe. Sono così pesanti da trascinare»

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Von Trier prende spunto da una vicenda personale, ovvero la sua lotta eterna contro la depressione.

Il paradosso di questa patologia che comunemente attribuiamo allo stato d’animo (nero, spento ecc), sebbene sia chiaramente implicato alla sfera emotiva del momento breve o longevo che sia, è più che mai la determinazione a conservare un inesplicabile afflizione. Come fosse uno scopo raggiunto o da raggiungere, una colpa autoinflitta ed infondata dettata non solo da un bisogno inconscio di estirpare dei demoni che conosciamo – o che inconsciamente vagano nella nostra mente sin dall’infanzia –  ma anche da un’ingiustificata responsabilità nei confronti della serenità stessa, dell’individuo o di tutto il mondo. L’unico onere possibile in questa circostanza, ove l’immobilità psichica e motoria pervade la mente del depresso.

Il regista prende la teoria  descritta nelle prime righe e la pone nelle braccia di un essere estremamente tormentato: il depresso. Infatti, alcuni studiosi sostengono che le persone affette da questo disturbo reagiscano efficacemente alle situazioni di forte stress.

Da qui in poi, ci saranno solo ribaltamenti di ruoli, deterioramenti e successive rinascite di personalità. Uno spettrometro del mutevole animo umano.

Justine, che rappresenta la prima parte del lungometraggio, è una ragazza apparentemente gioviale compiaciuta per il futuro prossimo, che trascorrerà con il compagno appena sposato. Tuttavia, le immagini che mostrano lo svolgersi del ricevimento in una lussuosa villa daranno seguito ad una amara intuizione. Dietro lo sfarzo, l’ospitalità per gli invitati e i sorrisi iniziali di Justine, si cela un’anima congelata, turbata psichicamente, incompresa da tutti se non dalla sorella Claire (Charlotte Gainsbourg). E sarà proprio questo lato della sua “psiche” a rappresentare la seconda parte della pellicola. Claire, che non viene meno alle cure per la depressione di Justine, entrerà allo stesso modo in uno stato di profonda angoscia per le sorti della sua famiglia, tormentata dall’incombere di Melancholia.

Justine è in balia di una vita non sua, un’anima libera vincolata dall’oppressione totalizzante di chi sceglie per lei, di una struttura sociale fatta di convenzioni e di legami forzati all’apparire. Fino al sopraggiungimento del suo Io primitivo, della sua negazione più ancestrale, dell’estrema contrapposizione, strumentalizzando il suo corpo e assoggettandolo inesorabilmente.

Eppure, tra queste anime sperdute, il primo che cede alla paura è apparentemente il più solido: il padre di famiglia, il ricco e colto John (Kiefer Sutherland), colui che dinanzi all’avanzare del pianeta Melancholia verso la terra si affida alla fede cieca verso la scienza, fede che verrà tradita, e la sicurezza e la superbia dell’uomo verranno punite con un deplorevole atto di vigliaccheria.

L’eroe, invece, è proprio la irrimediabilmente triste Justine. Malata, instabile, fobica e atterrita dall’esistenza, Justine riuscirà ad innalzarsi oltre il confine delle personalità precostituite, divenendo infine tutto. Quel tutto che vive nell’atto di accettare se stessi, il proprio mondo e il proprio destino. Consapevolezza che appare quasi mistica quando risuonano le parole: “io so le cose“. Talmente convincente  da apparire come una sentenza e facendoci domandare sulla natura soprannaturale di Justine, che invece non ha fatto altro che entrare in uno stato di pace, connettendosi, così, con il tutto.

Tra questi due estremi, danza l’intera umanità. I personaggi sembrano colori miscelati su una tavolozza, un miscuglio di anime prese da se stesse, che si umiliano nel loro triste egoismo, liberi di indossare tutte le loro maschere in un ricevimento di matrimonio, esempio perfetto delle costrizioni sia pratiche che psicologiche. Spesso, fonte di disagio e dissimulazione (sensazioni che appaiono presenti già dalla faticosa manovra in Limousine). Inoltre, Lars Von Trier costruisce i suoi personaggi dividendo quelli femminili, caricati di emozione ed espressività fisica, da quelli maschili, dotati di una silenziosa e pericolosa misantropia; non si affida a loro, ma li divora.  In questo passaggio di corpi amletici, quello di Ofelia è il rimando artistico più lapalissiano.

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Tali personaggi resteranno sullo sfondo, nel tentativo di dare un quadro generale. La loro reazione all’evento catastrofico non la vedremo mai. Ci è bastato vederli cambiare superficialmente per tutta la durata dell’evento, dimostrazione che la teoria vale anche in piccolo, senza scomodare immensi pianeti ed esperienze traumatiche varie.

E poi c’è Claire, la sorella della sposa. Colei che non è né sullo sfondo né agli estremi. Claire, non ha la sicurezza in se stessa, e in ciò che si sa, di John; non le appartiene neppure Justine, tormentata da una brutale e debilitante malattia. Probabilmente, Claire rispecchia la maggior parte di noi esseri umani. Le sue reazioni alle vicissitudini della vita -un matrimonio soffocante, una famiglia disgregata o un grosso pianeta blu che avanza minaccioso verso la Terra- sembrano comuni a molti di noi. Appaiono naturali, inevitabili, genuini, senza aspirare né ad un atto estremo come quello di John né alla rinascita spirituale di Justine, che sono figlie di un percorso maniacale (John) o patologico (Justine). Mentre Claire dà la sensazione di reagire coerente con la sua esistenza difficile ma sostanzialmente “normale”.

Contemporaneamente, un bambino guarda tutto questo, e lui, che non è ancora niente di definito, viene trascinato inesorabilmente dalla corrente di persone ed eventi; e nella sua purezza ha saputo scegliere bene la guida del suo ultimo viaggio, Justine (zietta spezzacciaio).

Melancholia: le equazioni della depressione

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La depressione e la successiva rinascita di quest’ultima sono presentate da diversi punti di vista. Il primo è proprio quello di Justine. Attraverso le sue esperienze camminiamo lentamente verso il percorso di rigenerazione inversamente proporzionale al percorso del pianeta verso la terra. L’apice di entrambi gli eventi coincideranno, la libertà di essere passa attraverso la distruzione, per poi rinascere col tutto.

La forza dormiente di Justine s’intravede anche attraverso i suoi piccoli atti di potenza sparsi in tutto il film: il rapporto sano con il nipote, lo “stupro” ai danni dello stagista, l’autorità violenta nei confronti del cavallo, la filippica contro il suo capo, sono tutti segni di una personalità forte, prigioniera di una malattia debilitante.

Il secondo punto di vista, invece, rappresenta quello di colui che aiuta il malato, colui che offre assistenza. In questo caso, a svolgere tale ruolo è Claire. In lei troviamo tutta la fatica del ruolo che in molti, spesso, sottovalutano. Chi aiuta il malato può ritrovarsi invischiato nella malattia pur senza volerlo.

I danni che la depressione può portare coinvolge tutto l’ambiente circostante. Claire, pur essendo totalmente al servizio della guarigione della sorella, non ne comprende pienamente il dolore. Allo stesso modo, una volta che Justine trova la via della rinascita, Claire non comprende esattamente il passaggio repentino della sorella.

La confusione che prova quest’ultima deriva dal non avere mai compreso realmente Justine, pur essendo stata la sua “anima gemella” per tutta una vita. Anime unite nella malinconia, ovvia specularità delle protagoniste del film di Von Trier. Difatti, e anche se di configurazione diversa, non è un caso che la malinconia si faccia spazio nella quotidianità di entrambe: unisce ancor di più un legame genetico, trovando la soluzione finale nel decesso di ogni cosa. Ma la mancata totale comprensione della natura di Justine da parte di Claire persiste. Ciò è ben rappresentato dalla frase che ripete alla sorella sia quando è malata che quando non lo è, ovvero:

«a volte ti odio con tutta me stessa, Justine»

E in piena consapevolezza di sé, Justine dirà:

«a volte è facile essere me»

La confusione che scaturisce dalla mancata comprensione della natura di Justine è rappresentata ancora meglio dagli altri punti di vista, ossia quelli esterni. Questi sono i punti di vista di John e del bambino.

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John, da bravo uomo di scienza e da solido padre di famiglia, sdogana la malattia come un capriccio di una ragazzina viziata. La superficialità di tale posizione è ben delineata nella banalissima frase che ripete alla cognata:

Devi essere felice, felice!

Tipica frase di chi non vuole ammettere che c’è un problema. Pur di appagare i propri desideri, John propone una soluzione che, come l’esperienza ci insegna, è impossibile da  attuare esclusivamente con le proprie forze. Un uomo così colto e pieno di sé partorisce una delle soluzioni più banali che si potrebbero offrire ad un depresso.

L’altro punto di vista esterno, ovvero quello del nipotino è l’unico logicamente accettabile. Il bambino pur non riuscendo a capire appieno la condizione della zia, accetta la situazione senza riserve.

Atteggiamento che donerà i suoi frutti, dato che il nipote sarà l’unico ad intravedere la forza intrinseca di Justine. E da questa forza prenderà tutti i benefici. Da questa forza troverà un faro da seguire nel percorso più difficile della sua breve esistenza.

In questo valzer di anime, l’ansia e lo sconcerto dello spettatore cresce. Il profondo disagio dei personaggi e l’inevitabile destino del nostro pianeta ci “infossano” in una palude insieme a tutti gli altri protagonisti. Per buona parte del film, Von Trier ci “alleva” nell’angoscia. Abilmente, però, il regista ci porta per mano verso la luce e attraverso Justine riesce a farci vivere un intero percorso esistenziale in poco più di due ore.

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E finalmente, nella grandiosa scena di nudo, in cui Justine alla luce del pianeta inizia un velato atto di masturbazione, simbolo di accettazione e serenità, anche lo spettatore trova pace. Sembra quasi che anche il pubblico possa affrontare serenamente il tragico destino dei personaggi. Pur immedesimandoci molto con la “normale” Claire, è in Justine che troviamo la forza di terminare il percorso. È grazie a Justine che impariamo una importante lezione.

Quando l’apocalisse si appresta a giungere Justine riacquista la sua sagace luminosità, nell’esatto momento in cui giunge la morte della corruzione e la speranza di una rinascita. Stavolta sarà l’innocente e generosa Claire, fiduciosa di un mondo all’altezza della meritocrazia, a sopperire ai paradigmi della scomoda e sleale natura del mondo terreno.

Lars Von Trier con Melancholia racconta se stesso

In questa parabola sofferta è tangibile che le radici (un padre assente e sconsiderato, una madre rancorosa verso il prossimo) siano alla base delle situazioni differenti ma  simmetriche di Justine e Claire, tanto quanto del vissuto del regista stesso. Una sorta di processo di auto-psicoanalisi ed idealizzazione poetica della sua sofferenza.

Il coinvolgimento emotivo che Melancholia opera sugli spettatori è valorizzato, infatti, dalla messa in scena, dalla percezione di Von Trier. Il movimento della telecamera accentua il lato realistico della vicenda, scivolando quasi in un approccio documentaristico. La natura realista del film non è smorzata neppure dall’uso di colori saturi, anzi l’armonia tra questi e la vicenda raccontata dona al film un’aurea mistica, improntata sullo straordinario. Ciò sembra quasi dirci: “ti sto raccontando delle vite di persone come me e te, a differenza che queste stanno per intraprendere un percorso straordinario ed inevitabile.

Questo espediente è rappresentato efficacemente nella scena iniziale dell’apocalisse, ove, grazie anche all’ottimo uso degli effetti speciali, la realtà delle cose e lo straordinario si mescolano, facendo emergere una danza onirica che mantiene i piedi ben piantati a terra. Inoltre, il mescolarsi del mondo onirico con quello reale è rintracciabile nelle numerose scene in cui Melancholia è protagonista, su tutte quella del sorgere del pianeta dinanzi al giardino dell’imponente casa borghese.

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L’uso della colonna sonora dona un’aria solenne a tutta la pellicola. Il Preludio di Tristano e Isotta di Richard Wagner è perfettamente calzante, dato che il tono grave si sposa perfettamente con la rappresentazione della fine della vita (il pianeta) o del rifiuto di essa (la depressione).

Ma la musica cede il passo ad un pervasivo silenzio. Quest’ultimo è simbolo di quella serenità ritrovata di cui vi abbiamo già parlato. Il silenzio è pace.

I cavalli si sono fermati”

Il silenzio e la pace sbiadiscono anche il pessimismo intrinseco della pellicola, che, però, resiste come un suono fitto e continuo, e pur ritrovando un equilibrio emotivo alla fine del film, queste parole rimbombano come una sentenza:

La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei

 

A cura di Elisa Pala e Luca Varriale