Quando si parla di ’68, più che un semplice anno, torna alla mente la rivoluzione culturale che proprio in quei mesi esplodeva in una nuvola di colori sgargianti. Una rivoluzione che non aveva avuto precedenti, una rivoluzione pacifica contro l’ordine costituito, che minava alla base quell’ “American way of life” di cui oramai tutto il mondo era alla disperata ricerca. Qualcuno comincia a criticare questa ossessiva ricerca di un benessere che si basa esclusivamente sulla ricchezza. Nascono movimenti studenteschi e giovanili, alcuni di essi legati al socialismo e che guardano con favore al blocco sovietico. Negli anni della guerra fredda (e soprattutto di quella del Vietnam), i giovani perdono le certezze, ma scoprono che la cultura che viene insegnata a scuola non è l’unica alternativa possibile. La controcultura, che in qualche modo persiste ancora oggi, affonda le sue radici in questo terreno fertile, destinata a segnare la nostra società odierna.
Nel cinema, come prevedibile, questi cambiamenti nella società non passano di certo inosservati. Proprio in quegli anni nasce un grande movimento di rivoluzione nella tradizionalissima Hollywood, quello che oggi chiamiamo New Hollywood. Tradizionalmente se ne fa coincidere la nascita con il successo di tre pellicole: “Il Laureato” di Mike Nichols, “Gangster Story” di Arthur Penn, entrambi del ’67, e “Easy Rider” di Dennis Hopper, del ’69. È sotto gli occhi di tutti l’importanza di quest’ultima pellicola, fedele ritratto dell’America intollerante verso i nuovi ideali di libertà. C’è però una pellicola meno famosa al grande pubblico che anticipa per certi versi il capolavoro di Hopper, ed è “Alice’s Restaurant“, diretta da Arthur Penn nel 1968.
La nascita del film è quantomeno curiosa. Un anno prima un giovane cantante folk, Arlo Guthrie (figlio del musicista Woody Guthrie), scrive l’omonima canzone, un brano di 18 minuti in cui si racconta la vera storia della festa del ringraziamento nella chiesa (sconsacrata ed adibita ad abitazione) di Alice e Ray. Penn propone a Guthrie di trarne un film, a cui verranno aggiunte parti inventate, come il personaggio di Shelly. Guthrie non solo accetterà, ma interpreterà sé stesso, dando vita ad una importante e lucida testimonianza di quello che è stato il movimento di controcultura in America, nello stesso anno in cui esplodeva il fenomeno in tutto il mondo. Il risultato sarà un film difficilmente inquadrabile nei generi tradizionali: un po’ on the road, un po’ commedia e un po’ dramma, ma sempre ritraendo la nuova generazione di “hippie” con occhio critico. Non tanto per demonizzarlo agli occhi della società, quanto per svelarne le contraddizioni che di lì a pochi anni avrebbero fatto arenare il grande sogno di quella generazione. Per dirla con Hunter S. Thompson, “quel tipo di culmine che non tornerà mai più”.
Ogni personaggio, anche alcuni che appaiono per pochi secondi, rappresenta un aspetto di quel periodo. Arlo è un ragazzo irrequieto, che non riesce a fermarsi per più di qualche giorno nello stesso posto, sballottato tra la città (ed il padre malato) e la campagna, alla ricerca di quell’ideale di libertà che continua a inseguire senza successo. Alice e Ray sono una coppia stanca, che comincia a rendersi conto di come questo movimento giovanile non appartenga più a loro, e forse non gli è mai appartenuto. Alice, lo capiamo subito, è una donna libera. Il vincolo del matrimonio è solo una formalità, nonostante ami ancora Ray. Shelly è un ex tossico, per cui ribellione significa eroina. I personaggi si muovono quasi freneticamente di situazione in situazione ed ogni occasione è buona per fare festa ed unirsi in gruppo. Sono questi gli unici momenti in cui il loro sogno sembra avverarsi: per quei pochi effimeri attimi sembra che la loro rivoluzione abbia finalmente prevalso, che il loro sogno si sia avverato. Finita la festa però si troveranno inevitabilmente a fare i conti con la realtà e le loro contraddizioni.
Lo spettro del Vietnam è una presenza costante. Il terrore della chiamata alle armi per una guerra lontana dalla coscienza di quella generazione non ci abbandona mai, tra lettere della visita medica e la protesi di un amico reduce. Arlo ed amici spesso ci scherzano, ma di fronte alla possibilità concreta di dover partire si percepisce il dramma di una generazione, contraria alla violenza ed alla guerra, ma obbligata dalla patria a combattere per ideali ed un fine a cui non hanno mai creduto.
La musica ovviamente ha un ruolo importante nel film. La canzone originale di Guthrie ci accompagna in alcuni frangenti, utilizzata come voce fuori campo del protagonista, come nella memorabile scena della visita medica di leva. In certi casi è lo stesso Arlo a suonare, sui palchi dei locali in cui si esibisce o in ospedale da suo padre. La colonna sonora include anche, tra gli altri, un brano di Joni Mitchell.
Il finale non lascia scampo a nessuno: i ragazzi si svegliano dal sogno. Un sogno bellissimo, ma come tale utopistico, irrealizzabile. La lunga inquadratura su Alice, con gli alberi spogli e la dura terra invernale, vale più di mille parole. Sola, sulla soglia della sua chiesa, nel giorno del suo secondo matrimonio, si rende conto di come quello che stanno inseguendo stia per finire. In pochi anni il movimento di contro-cultura si schianterà violentemente contro la parte reazionaria d’America, un muro eretto dalla nazione che sceglierà Richard Nixon come presidente. Un finale che si potrebbe dire quasi profetico, il canto del cigno di un sogno realizzato nell’anno del suo massimo apice. Ma tutto questo Alice non lo sa.