Foo Fighters: Medicine at Midnight non convince a pieno [RECENSIONE]

Foo Fighters - Dave Grohl
Foo Fighters - Dave Grohl nel video di Shame Shame
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Dopo l’ottimo Concrete and Gold sembrava che Dave Grohl e compagni avessero trovato la giusta formula per ridare freschezza al progetto Foo Fighters. L’attesa di questo nuovo Medicine at Midnight era quindi tanta e le aspettative molto alte. Stiamo vivendo un periodo particolare, sia musicalmente parlando che al di fuori della sfera musicale, e l’attenzione sui nuovi album è altissima, soprattutto quando ci sono dietro nomi di rilievo.

Già dal primo ascolto si può notare quanto il nuovo progetto sia sviluppato intorno all’idea di tornare a sonorità più “aperte” e meno cupe. Anche a detta della stessa band il nuovo album sarebbe stato più pop. Per quanto le intenzioni potessero essere buone, ricordiamo che il pop ha avuto una spinta qualitativa enorme negli ultimi anni e in questo album ci troviamo tra le mani un prodotto senza grandi spunti e poche idee che spingono al riascolto, quasi a voler (involontariamente) svilire il concetto di pop.

Chi ben comincia…

L’apertura di Medicine at Midnight è affidata a Making a Fire che apre con un groove in 3/4 per proseguire su tutta la strofa. Come spesso accade, il problema dei tempi dispari (seppur in questo caso il più “semplice” da utilizzare in una composizione) è quello di indurire l’ascolto e renderlo meno omogeneo. La difficoltà nel maneggiare questo tipo di tempistiche nel rock mainstream e nel pop è proprio quella di creare un sistema sonoro che mascheri questo genere di tempi, così che l’ascoltatore abbia di fronte un qualcosa di non troppo sincopato o che sembri “ripartire” ad ogni battuta. I Beatles sono un esempio incredibile di come tempi dispari o complessi possano essere inseriti in modo omogeneo e gradevoli all’ascolto.

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Ecco, Making a Fire funziona solo a metà: bene durante i cori, molto male durante la strofa cantata da Grohl. Oltretutto questo brano dona già un’idea di quel che ci troveremo davanti. Strofe dal ritmo e dalla cadenza molto secca per poi aprirsi nei ritornelli. Quest’ultimi sono la salvezza dell’album, sempre abbastanza riconoscibili e che donano musicalità a canzoni dalla struttura non riuscitissima.

Singoli e ballate.

Nelle scorse settimane abbiamo avuto la possibilità di ascoltare Shame Shame, che ricalca le dinamiche incontrate con Making a Fire ma in modo più efficace. L’idea di dare ritmo alla canzone la rende a tratti incompleta ma risulta buona nelle dinamiche che differenziano efficacemente strofe da ritornelli. Cloudspotter sembra uscita da un album dei Tenacious D, il che potrebbe essere anche un aspetto positivo ma le sonorità oldschool si disperdono velocemente.

Il nuovo singolo estratto è Waiting on a War. La ballata funziona e ci riporta ai classici della band. Vero, niente di nuovo ma almeno Dave e company giocano finalmente in casa mostrando quel che sanno fare meglio: canzoni orecchiabili che diventano facilmente imprimibili nella memoria dell’ascoltatore. In realtà è proprio ciò che un album/singolo rock mainstream/pop deve fare per avere successo. Infatti la “sperimentazione” cercata nel resto dell’album risulta poco riuscita.

La titletrack Medicine at Midnight torna alle dinamiche delle prime canzoni ma riesce bene con inserimenti blues (grazie al tremolo e al solo di chitarra) e una maggiore omogeneità di tutta la composizione. No Son of Mine è di motorheadiana memoria, un pezzo che sembra una b-side di Lemmy Kilmister e soci ma senza le sonorità sporche e aggressive di quest’ultimi. Holding Poison sembra invece una vecchia canzone scartata degli stessi Foo Fighters che in Medicine at Midnight risalta come una tra le migliori tracce. L’effetto synth ricorda i migliori Garbage senza però lo stesso fascino che Shirley Manson riusciva a donare con la sua voce alle canzoni della band.

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Andata e ritorno dai Beatles passando dai Foo Fighters.

È verso la chiusura del disco che troviamo la migliore canzone per distacco. Chasing Birds è palesemente di beatlessiana memoria e ne ripercorre sia dinamiche vocali/musicali che la struttura. Anche in questo caso possiamo notare come siano le ballate a risollevare le sorti dell’album riuscendo a mettere dei notevoli punti positivi all’ascolto. La chiusura è data invece a Love Dies Young che mette in evidenza quanto la band consideri di basso livello l’inclinazione al pop. La canzone infatti è una brutta copia del classico pop rock anni ’90. Non tradisce l’identità e le sonorità dei Foo Fighers, tornando però nel territorio dei primi album della band nel peggiore dei modi.

Un album che risulta quindi poco ispirato e che cerca una componente pop già vecchia 20 anni fa. Le buone battute vengono incarnate dalle belle ballad e da qualche sporadica ottima inclusione nei ritornelli. La lunghezza del disco oltretutto non aiuta, le poche canzoni risultano quindi sì omogenee tra loro ma anche molto simili come concetto (il che potrebbe essere ottimo in un ottimo album) e struttura. Peccato perché da Dave e il resto della band ci aspettavamo molto molto di più.

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