Green Day: recensione Father of All Motherfuckers

Green Day Billie Joe Armstrong
-Credits: Green Day / Billie Joe Armstrong / Flickr / Ed Vill
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Intenti e realizzazione non riescono a trovarsi totalmente rendendo il nuovo album semplicemente buono.

In più di 30 anni di carriera i Green Day son riusciti a reinventarsi innumerevoli volte. Se però fino al famigerato American Idiot e 21th Century Breakdown hanno cercato di mantenere una lunga evoluzione sonora portata avanti con coerenza musicale, dal triplo album ¡Uno! ¡Dos! ¡Tré! il trio californiano ha stravolto tutto. Dopo un Revolution Radio andato decisamente in sordina, Father of All Motherfuckers vuole segnare la nuova rinascita della band.

Fin da subito ci si rende conto di quanto i Green Day si vogliano prendere poco sul serio con questo nuovo progetto. La copertina presenta lo stesso avambraccio di American Idiot ma il tatuaggio che rappresenta il nome dell’album viene censurato da un unicorno che vomita arcobaleni. A livello sonoro la prima cosa che salta poi alle orecchie sono sicuramente i tanti cori e il falsetto di Billie Joe Armstrong, ma è solo l’inizio.

Chi ben comincia…

La title track non è niente di memorabile ma svolge bene il suo lavoro. È divertente, ritmata e ottimamente confezionata. L’apertura quindi fa percepire un radicale cambiamento che però tenderà a spegnersi man mano che si avanza con l’ascolto dell’album. Innanzitutto l’intero disco ha una durata molto bassa, la più corta di tutta la discografia dei Green Day, e tende a condensare quindi il tutto in poco più di 26 minuti.

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Fire, Ready, Aim cerca di mantenere il tiro della prima canzone e anzi, aggiunge un po’ di pepe. Oh Yeah! è senza alcun dubbio la traccia più brutta dell’intero Father of All Motherfuckers. La canzone è una versione riuscita male di Do You Wanna Touch Me di Joan Jett, già cover della versione originale di Gary Glitter. La riproposizione del trio risulta noiosa e lenta, con inserimenti sonori decisamente poco riusciti. Meet Me on the Roof sembra voler mischiare i loro anni ’90 con un rock ‘n’ roll da musical. Il risultato non è però pessimo e risulta tra le tracce divertenti del disco.

… non sempre finisce bene.

I Was a Teenage Teenager, Stab You in the Heart e Sugar Youth sembrano voler tornare alle sonorità passate, tra punk rock e la grande ispirazione del rock ‘n’ roll nudo e crudo. Differentemente dalla prima metà del disco, queste tre canzone risultano già sentite e risentite, niente di nuovo e niente di memorabile.

È il momento di Junkies on a High. Questo brano lascia interdetti. Se da un lato si nota una discreta struttura e una buona idea di fondo, il tutto è in parte rovinato dalla scelta degli strumenti e dei suoni. Take the Money and Crawl e Graffitia tornano un po’ nel tema dell’album riportando cori e ricerca di innovazione (per la band).

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Un’occasione sprecata.

L’idea di fondo poteva essere valida, il disco scorre tutto sommato bene, è ritmato e divertente da ascoltare. Manca una vera e propria traccia trascinante ma le più “fresche” fanno il proprio lavoro e funzionano più come insieme. Il fattore che probabilmente incide di più sulla non perfetta realizzazione di questo album è quello di voler reinventarsi senza voler cambiare troppo le carte in tavola. Una ricerca sonora più minuziosa e alcuni effetti più azzeccati sugli strumenti avrebbero potuto cambiare radicalmente in positivo l’identità dell’album, magari con una svolta leggermente più elettronica. Insomma, la struttura generale è buona, l’idea di non prendersi troppo sul serio anche, ma manca ancora qualcosa all’intera formula.

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