La Casa di Jack: la recensione dell’ultima sfida di Lars Von Trier

"Per molti anni ho girato film su donne buone, ora ho fatto un film su un uomo malvagio." - Lars Von Trier

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“Bello come l’incontro fortuito di un ombrello e una macchina da cucire sopra un tavolo operatorio”. Così nei lontani anni ’20 del ‘900 l’avanguardia surrealista, guidata da André Breton, sognava l’opera d’arte contemporanea. L’immagine arriva per altro da I Canti di Maldoror di Isidore Ducasse, Conte di Lautrèmont: misterioso poema epico datato 1869, interamente dedicato alle gesta di quello che oggi chiameremmo serial killer. Crudeltà, eros e morte, e su tutto un’ironia inesorabile, che diventa Humor Noir: compito dell’arte surrealista non è la deformazione, l’allucinazione né l’incubo, ma l’attacco all’ipocrisia borghese, operato attraverso il non-senso, l’associazione d’immagini incongruenti, l’esercizio continuo della provocazione. All’inizio degli anni ’90, quando Breton e i suoi manifesti non restano che un retaggio confuso nel tempo, un giovane cineasta danese si affaccia sulla scena europea. Parliamo ovviamente di Lars Von Trier: forse unico surrealista del nostro tempo, che torna oggi a sfidarci con il suo quindicesimo lungometraggio: La Casa di Jack.

La Casa di Jack, The House That Jack Built, si presenta come “horror di impianto filosofico”. Lo stesso Von Trier lo definisce il più violento tra i suoi film. Ma non aspettatevi la prevedibile messa in scena delle atrocità perpetrate da un assassino. Piuttosto, La Casa di Jack è il sussidiario illustrato della disperazione umana. La stupidità delle vittime, la frustrazione dell’omicida, schiavo della sua mente malata: tra questi due estremi, Von Trier riscrive le regole dell’horror, descrivendo il bisogno d’amore come la più grottesca delle pulsioni umane.

La Casa di Jack

La Casa di Jack è un film in 5 capitoli e un prologo. O meglio, 5 incidenti e una catabasi: il termine che dalla mitologia greca alla Commedia dantesca indica la discesa negli inferi. Per l’intera durata del film, l’azione è accompagnata dalle voci fuori campo , le associazioni e le digressioni di Jack e Virgilio: Matt Dillon e Bruno Ganz. E’ quindi lo spettro, o forse l’anima del serial killer che rivede a ritroso il film della sua vita, ritratta in 5 omicidi salienti. E non a caso, il volto di Virgilio è quello di Bruno Ganz: che è stato l’angelo de Il cielo sopra Berlino, ma anche Hitler ne La Caduta. Secondo la più crudele ironia della sorte, La Casa di Jack resterà l’ultimo film di Bruno Ganz, morto lo scorso 16 Febbraio. Ma non poteva essere che lui, l’attore che meglio ha saputo interpretare l’umanità, la debolezza e la follia di Adolf Hitler, ad accompagnare all’inferno il nostro Jack: che non è un generico squartatore, ma l’alter-ego dello stesso Lars Von Trier.

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La Casa di Jack

“E’ il personaggio che sento più vicino a me, a parte il fatto che non uccido le persone!” così Von Trier ha raccontato Jack a Matt Dillon, che in conferenza stampa a Roma ha descritto La Casa di Jack come la storia di un uomo completamente privo di empatia. Ma soprattutto: un film che non si rivela attraverso emozioni violente, ma piuttosto va masticato, ripensato e digerito per giorni e giorni dopo la visione.

Il grande incidente nella carriera di Lars Von Trier è ovviamente quello di Cannes 2011: dopo l’anteprima di Melancholia, Von Trier risponde a una domanda diretta sulle sue presunte simpatie naziste. L’affermazione non poteva che essere candida, irritante e provocatoria: Von Trier osa rispondere che riesce a immaginare Hitler come un uomo, chiuso in un bunker nei suoi ultimi giorni di vita. Il verbo “sympathize“, che in inglese può indicare compassione, comprensione o solidarietà, rimbalza nei titoli di tutto il mondo: Von Trier ora è l’uomo che ha simpatia per Hitler, espulso dal Festival de Cannes come “persona non gradita“. Non contento, il cineasta parla anche della sua ammirazione per Albert Speer, architetto e ministro del Terzo Reich. Dopo 7 anni e una serie infinita di illazioni, la risposta è The House That Jack Built, La Casa di Jack. E nel film che riporta trionfalmente Von Trier a Cannes, Matt Dillon è fatalmente un ingegnere che sogna di essere architetto, ossessionato dalla casa perfetta.

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Progettare, costruire e distruggere: quello de La Casa di Jack è un circuito senza fine, dove la ricerca della perfezione, astratta e assoluta, è la condanna di una vita. Ma il film di Lars Von Trier non è, come poteva essere, il grande capolavoro sul Male. La cattedrale gotica e gli archi rampanti lasciano spazio allo squallore di una cella frigorifera, dove dell’architetto e l’assassino non resta che un uomo malato, buffo, costantemente inadeguato. Il tratto più sconvolgente non è la violenza, ma l’ironia che attraversa tutto il viaggio ne La Casa di Jack: un film che trova momenti di comicità assoluta, e sequenze da vera e propria slapstick-comedy.

Non mancano la crudeltà e il sangue in The House That Jack Built, eppure le vittime di Matt Dillon somigliano a un’opera d’arte iperrealista, una scultura di Jake e Dinos Chapman, sottratta alla Saatchi Gallery. Certo: quando esplode, la violenza di Jack è fredda, efferata e totale. Eppure, nel film di Von Trier, il silenzio assordante della società si rivela altrettanto letale.

E’ probabile che tutto il cinema di Lars Von Trier sia l’infinita variazione di una sola immagine: la follia del singolo che chiede di sopravvivere al mondo. Per la prima volta, con La Casa di Jack il protagonista non è una vittima, e trova un vero alleato: Virgilio, una guida che ovviamente non esiste, prodotta da un immaginario di letteratura e cinema.

La Casa di Jack non è un horror, non indulge in immagini dalla bellezza estetizzante, e non fa niente per essere piacevole. Al contrario, Von Trier torna alle luci naturali, le inquadrature sporche e disturbanti di Dogme 95, ma anche alle digressioni didattiche che scandiscono i 2 capitoli di Nymphomaniac.

In fondo, si tratta di accettare un patto: rinunciare a tutto quello che sappiamo sul cinema e partecipare a un’esperienza che non somiglia a nessuna. Inutile dire che conviene accettare: anche nella grande fase della maturità artistica, le sfide di Lars Von Trier restano uniche e imprevedibili.