A Perfect Circle – Recensione Eat the Elephant

A perfect circle
Condividi l'articolo

Tornano gli A Perfect Circle. In una forma nuova e non del tutto attesa.

Si può dire che Eat the Elephant abbia tradito le aspettative dei fan, che lo aspettavano fin dal 2004? Forse sì, considerando che quello che molti si aspettavano probabilmente dovesse assomigliare di più ad Emotive (2004). Invece Eat the Elephant, ve ne accorgerete subito tutti, è un disco molto riflessivo, decisamente “sottotono” rispetto ai lavori precedenti di Keenan e soci.

Mancano grandi pezzi hard rock, anche se alcuni ci vanno vicino: The Doomed, TalkTalk e Hourglass. Le sonorità sono rinnovate, più sperimentali, più moderne, con tocchi di elettronica qua e là e toni compositivi decisamente più vicini alla musica mainstream. Lo si evince da canzoni come So Long, and Thanks for All the Fish (chiaro il riferimento all’opera di Douglas Adams). E anche dalla traccia finale, Get the Lead Out, che ricorda i più oscuri Alt-J.

A Perfect Circle

Un disco insomma complesso, intricato, da ripassare e studiare; non però quella complessità “alla Tool” a cui siamo abituati. E certo non ciò che molti si aspettavano. D’altra parte, è chiaro che dopo quattordici anni (non tre), ci sarebbe anzi da preoccuparsi se una band non cercasse una qualche maturazione compositiva e sonora.

LEGGI ANCHE:  10 band alla scoperta del progressive metal

Dato che dietro ci sono sempre i buoni Maynard James Keenan e Billy Howerdel, l’impronta del gruppo c’è ancora e si coglie. Ma, per i delusi, va ricordato appunto che sono passati molti anni, e provare a pensare a quanto è cambiata la musica (mainstream e non) in questi anni. Pensate a cosa c’era nel 2004, e pensate a cosa c’è nel 2018.

A Perfect Circle 3

Eterogeneità e omogeneità.

Al primo ascolto possiamo da subito evincere quanto ogni traccia abbia una differente forma sonora. La sostanziale differenza tra un brano e l’altro potrebbe far percepire una certa disomogeneità. Il vero collante è sicuramente l’originale voce di Maynard e i colpi potenti della batteria. La differenza sonora invece aiuta l’ascolto e rende il disco molto scorrevole. Il disco ingranerà quindi dopo più ascolti, andando a delinearsi al meglio dedicandogli più tempo. Probabilmente non ci troviamo di fronte a un capolavoro, ma l’album riesce a regalare ottime tracce, sia più spinte che più leggere e aperte.

Aggiunte queste considerazioni, Eat the Elephant si rivela intelligente, adulto, di una band che, a quasi vent’anni di carriera, ha voglia di provare cose diverse facendole molto bene. Anche se il prezzo è deludere la fanbase.