Tiny Moving Parts – Recensione Swell

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“Emo” e “math” sono due parole che, da sole, fanno già paura. Figuriamoci insieme.

Ma come altro definire i Tiny Moving Parts? Tre cugini che si sono chiusi in un garage nel 2008 a fare cover dei Green Day e ne sono usciti qualche mese dopo con un math rock epilettico misto a screamo. Un’evoluzione niente male, testimoniata dai loro primi due dischi Waves Rise, Waves Recede, The Ocean Is Full Of Waves (2008) e Moving To Antartica(2010), che mostrano un solidissimo background fatto di ore e ore passate ad ascoltare gli American Football e i Don Caballero,per quanto entrambi i lavori siano al limite dell’ascoltabile(provare per credere).

 

Sicuramente qualcosa che serviva per portare una ventata fresca (mai troppo)alle orecchie dei fan del math, che forse da troppo tempo si trovavano intrappolati in un calderone di riff già sentiti e plausibili plagi. Non che il tapping a trecento all’ora o i tempi dispari li abbiano inventati i tre ragazzini del Minnesota, eh, ma insomma, il loro primo disco ufficiale, This Couch Is Long & Full Of Friendship del 2013 è un intoccabile mix di math rock, midwest emo e spleen adolescenziale.

Cosa è successo, dopo?

I tre sono cresciuti, e dopo aver scoperto violini e trombe (Pleasant Living, 2014), che lascia aperta la pista di una possibile influenza del guru dell’emo Mike Kinsella, e il pop punk (Celebrate, 2016), il 26 gennaio 2018 ci hanno regalato Swell, uscito per Triple Crown Records e Big Scary Monsters.

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Sono passati dieci anni dalla nascita dei Tiny Moving Parts, ma Swell è una bomba fatta di chitarroni puliti e linee di batteria ancora troppo veloci per essere vere (il baffuto giovanotto che siede dietro le pelli, William Chevalier, non ha mai goduto della fama che meriterebbe, come dimostra qui).

tiny moving parts 5

Però.

Però i furbacchioni hanno capito qual è la formula vincente: accordatura aperta, capotasto che si sposta ad ogni brano, tapping, due o tre giri di accordi in dieci pezzi, un soprano che doppia la voce sofferente di Dylan Mattheisen e un pizzico di midwest: violini, chitarre, un po’ di tastiere. Shakerato(“non mescolato”) il tutto, aggiungere qualche pagina di quaderno fitta di parole, scritte con una penna quasi scarica, che lasciano sempre sul volto lo stesso sorriso triste, da anni.

Per carità, funziona eccome. Ma è abbastanza?

L’impressione è che i Tiny Moving Parts si siano letteralmente adagiati e, certi del successo che avrebbero avuto (meritato, chiariamo), abbiano lasciato da parte originalità e varietà compositiva. Swell suona bene ma troppo, troppo simile.

I suoni sono curatissimi, la chitarra non è mai stata così limpida e brillante, il basso finalmente ha il ruolo che merita, ma qualcosa nel meccanismo si è inceppato: all’improvviso, sembrano essere finite le idee. Si fa fatica a distinguere una traccia dall’altra, trasformando così questo disco in un’unica, seppur bellissima, traccia lunga 32 minuti.

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Dai Tiny Moving Parts non si può accettare un disco monotono. Stavolta, però, chiudiamo un occhio.

Sono venuti meno gli schizofrenici cambi di tempo e di dinamica, le grida a squarciagola (Matthew Chevalier, che pesta da sempre sulle corde di quel fenomenale Jaguar Bass rosso oltre a fare i cori, si sarà probabilmente lacerato le corde vocali, dopo anni di screaming), i tempi dispari.

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Ma Swell è un disco di bellissime canzoni da cantare in coro, con una lattina di birra in mano e la maglietta dei Foxing, fissando quei fogli di quaderno riempiti di parole, scritte con una penna quasi scarica, che alla fine il sorriso te lo fanno venire comunque, nonostante siano passati dieci anni. Perchè quella malinconia così bella si sente lo stesso, tempi dispari o no.

 

https://open.spotify.com/album/6mNGjYC02mSxcvbO273IRv?si=hxZk1NonR-ms5n-ASGRY5w

swell copertinaGenere: Emo                                             Anno di pubblicazione: 2018