Strofe: Significato di Rimmel – Francesco De Gregori

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Francesco De Gregori – Rimmel

Politico. Impegnato. Disimpegnato.

De Gregori di sinistra: per finta. Di destra: i soldi.

De Gregori, ma vaffanculo!

Ora è quasi naturale addirittura esordire con un sonoro vaffanculo a chiunque, direi di moda. Nel 1975, invece, al centro della contestazione, degli anni di piombo, delle lotte di classe, dire la propria come meglio si crede e mettersi contro una fazione o un’altra era un suicidio. Non appartenere integralmente a qualcosa era un suicidio.

Essì, perché generalmente si tende ad identificarsi totalmente in predeterminati gruppi sociali. L’appartenenza all’uno o all’altro gruppo detta ciò che fare, cosa apprezzare, cosa denigrare.
Il cantautore romano, per la verità, non ha mai nascosto la sua vicinanza politica ad idee di sinistra, ma dal popolo di sinistra, quello più duro, quello gretto direi, perché duro non sempre può essere letto come un biasimo, non è stato mai accettato.

Le sua colpa principale è stata quella di aver avuto successo non essendosi arreso alla violenza uniformante degli slogan di movimento, che contro l’uniformità si scagliavano, creando a conti fatti la loro uniformità.

Un cantautore dichiaratamente di sinistra, infatti, negli anni ’70, era costretto ad essere un militante e per essere militante era necessario essere asserviti alle logiche del movimento.
Le pretese erano sui temi delle sue canzoni. Troppo astratti, troppo poco critici con la società, troppo poco “proletari“.

Agli attacchi della sinistra extra-parlamentare che lo accusava di arricchirsi alle spalle dei proletari – va’ in fabbrica e suona la sera; con le canzoni non si fanno le rivoluzioni; venduto – facevano eco le critiche al vetriolo di giornalisti musicali come Giovanni Pintor, peraltro vicino ai sopracitati movimenti. Al cantautore venivano imputati versi da Baci Perugina e collegamenti ed evocazioni senza capo né coda.

La storia musicale italiana risponderà diversamente.

Sul banco degli imputati, il fautore principale del successo e del conseguente astio per Francesco, il suo quarto album: Rimmel.

Il brano che proveremo ad analizzare è quello che dà il titolo all’opera. Rimmel, per l’appunto, regala immagini evocative, spezzate, di una storia d’amore ormai naufragata.

Procediamo ora strofa per strofa.

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E qualcosa rimane, 
fra le pagine chiare e le pagine scure, 
e cancello il tuo nome dalla mia facciata 
e confondo i miei alibi e le tue ragioni, 
i miei alibi e le tue ragioni. 

La storia è introdotta in medias res, nel centro dell’argomento. La congiunzione “e”, sospesa all’inizio della frase, cela dietro di sé una storia d’amore presumibilmente molto travagliata. Dalle rovine della storia nascosta dietro quella congiunzione, qualcosa è rimasto. Intangibile, tra i momenti sereni, le pagine chiare, e i gli attimi turbolenti, le pagine scure, è rimasta la sofferta esperienza di un amore che funge da insegnamento.
Si intuisce già dalla prima strofa che il protagonista viveva un ruolo subordinato nella relazione e, costretto a eliminare ogni traccia dell’ex amata dalla sua vita esteriore, si ritrova ora a ragionare sulle loro discussioni.
I suoi erano solo alibi, scuse. Scuse che si dava da sé stesso per non interrompere il rapporto o scuse accampate a lei una volta maturata la decisione?
Quelle delle donna invece erano proprio ragioni, motivazioni sacrosante. Si intravede già una certa autoironia, quasi una poetica dello sconfitto, in questi versi. E’ intellegibile, infatti, che i due erano di fatto incompatibili. Tuttavia, il protagonista, assume il ruolo di colui che è costretto a difendersi arrampicandosi sugli specchi, regalando il ruolo di detentrice della ragione alla compagna.
Subordinato, quasi succube, quasi per scelta.

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Chi mi ha fatto le carte 
mi ha chiamato vincente, ma uno zingaro è un trucco. 
E un futuro invadente, fossi stato un po’ più giovane, 
l’avrei distrutto con la fantasia, 
l’avrei stracciato con la fantasia.

Esordiscono nella seconda parte della prima strofa i leitmotiv della canzone: le carte, il gioco. La metafora del gioco di strategia nell’amore non è nuova nemmeno allo stesso De Gregori, avendola utilizzata già l’anno precedente per Niente da Capire, tuttavia è particolare osservare il modo in cui egli utilizza questa metafora nel testo. Non spara poco elegantemente la metafora in modo diretto – l’amore è una partita a poker; l’amore come gioco degli scacchi.  Egli ci gira intorno evocando frequentemente immagini legate a quell’area semantica. Le carte evocano la natura aleatoria – alea, dado – del loro rapporto.

Così come il loro amore era frutto di strategie e trucchetti, lo era anche il loro futuro insieme. Previsioni di zingari, parole di scarso valore per trovare conforto, nulla di più. Il futuro insieme tracciatogli da terzi, si fa persino invadente, fastidioso. Fosse stato più giovane, più forte, avrebbe distrutto quel trucco prima. Sarebbe stato capace di immaginare un amore migliore per sé stesso e cercarlo, fuggendo da quella farsa che percepisce essere tale.

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Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo 
e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro. 
O ancora I tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo, 
li puoi nascondere o giocare come vuoi 
o farli rimanere buoni amici come noi. 

Una volta separatisi l’invito a dimenticarsi è, all’inizio duro e direttissimo, alla fine falsamente cordiale. L’impeto urla alla donna di concedere il suo amore a chiunque ella voglia, nel più totale disinteresse, e di giocare qualche altro povero diavolo come ha già fatto con lui.
Egli ha scoperto, però, il trucco della donna. Quei quattro assi, il poker che lo teneva sotto scacco, sono ormai svelati e per lui sono solo un falso giochetto di prestigio. Tutti dello stesso colore. Suggestivi, per carità, ma senza valore. A lui non importa più nulla. Può fare ciò che vuole delle sue strategie con altri uomini.
Questo astio si dissolve nell’ultimo verso. Per mantenere una certa dignità, per non farsi vedere scomposto o turbato dalla donna e, dunque, ulteriormente sconfitto, le concede una falsa amicizia, che è più una dichiarazione di superiorità che un effettivo atto d’affetto.

Santa voglia di vivere 
e dolce Venere di Rimmel. 
Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi 
se per caso avevo ancora quella foto 
in cui tu sorridevi e non guardavi. 

Forse i due versi più belli della canzone aprono la seconda strofa.

Dolce Venere di Rimmel è una metafora strepitosa. Il trucco del Rimmel cela sotto le sue delicate vesti le verità della donna. Sotto la Venere di eterna bellezza, una bellezza eterea resa eterna dal trucco dell’innamoramento, che altro non è se non un trucco. Sotto la dolcezza e la gentilezza, l’affabulazione, che delle prime due si veste per fare breccia tra le corazze.
E sopra la bellezza di quest’innamoramento la Santa voglia di vivere. Santa e demone allo stesso tempo. Perché è la voglia di vivere quella che spinge a cedere alle avances dell’amore. Quella strana forza che spinge ad abbassare la guardia. Ma la santità dell’innamoramento che sacralizza e le dolci Veneri di Rimmel non sono fatte per andare d’accordo. Beatificare una Venere che tale non è, è una leggerezza in cui casca chiunque.

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E come nel migliore dei bluff – e sbattiamo sempre nel poker – ci è cascato in pieno.

Come quando fuori pioveva, sebbene più sottile, è un’altra immagine del gioco del poker, a voler rendere ancora di più l’idea della partita continua tra i due. La frase infatti è una piccola filastrocca da recitare per ricordare il valore dei semi nel gioco del poker all’italiana. Cuori, Quadri, Fiori, Picche. Tuttavia, nell’utilizzo del cantautore, diventa uno scenario per raccontare un pezzo di storia fortemente rappresentativo della natura del loro rapporto.
La donna chiede una sua vecchia foto, quasi a voler ribadire la sua importanza nella vita del compagno. La foto la rappresenta sorridente, oserei dire vittoriosa, ma con lo sguardo lontano dall’obiettivo, per i fatti suoi.

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Ed il vento passava 
sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona 
e quando io, senza capire, ho detto sì. 
Hai detto “E’ tutto quel che hai di me”. 
È tutto quel che ho di te.

E in questa scena, molto film romantico anni ’50, con il vento che le accarezza il collo di pelliccia, un altro artificio del suo essere Venere di Rimmel, che la donna ottiene la certezza della sua superiorità. Lui, senza comprendere che la richiesta di quella foto voleva essere solo l’ennesima prova della sua subordinazione, ammette di conservarla ancora.

Lei, sprezzante, vincente e spietata, gli dichiara finalmente la sua sconfitta. Quell’istantanea è l’unica cosa che gli rimarrà. Tutto il resto era artefatto, solo un gioco.
E quella foto, simbolo di quel gioco e giogo d’amore essa stessa, ne è l’unica verità. L’esperienza da cui trarre insegnamento.

Lui, sconfitto, accetta il volere della donna ancora una volta. L’ultima volta.

Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo 
e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro. 
O ancora I tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo, 
li puoi nascondere o giocare come vuoi 
o farli rimanere buoni amici come noi. 

E’ nel secondo ritornello che mi piace immaginare il protagonista bruciato, sconfitto, fare pace con sé stesso.

Parificare il rapporto e pacificare il tormento.

E infine scappare alla ricerca della sua santa voglia di vivere.

Magari disilluso, magari disincantato.

Magari..

A cura di Peppe Giorgianni

Quel giorno tutta, dai pettini ai piedi,
come un attore tragico un dramma di Shakespeare in provincia,
ti portavo con me, ti sapevo a memoria,
e girellando per la città ti ripassavo.

Quando caddi davanti a te, abbracciando
questa nebbia, questo ghiaccio, questo spazio.

Come sei bella, questo turbine d’ afa.

”Ma di che parli stupido? E’ finita”

Boris Pasternak – Marburgo

http://https://open.spotify.com/album/5c1TMPBpOc4qJebACcOm7K

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Brano: Rimmel
Album: Rimmel (1975)
Artista: Francesco De Gregori