In Sordina: Serie Tv- The Man in The High Castle

The Man in The High Castle
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Una volta mi hanno detto che ci vuole una grande forza a non essere liberi. Ho tenuto la testa bassa per così tanto tempo, che ho dimenticato come ci si sente a stare dritti.

In questa nuova puntata della nostra rubrica In Sordina dedicata alle serie tv andremo ad analizzare uno dei prodotti televisivi di punta di Amazon Studios, ovviamente stiamo parlando di The Man in The High Castle.

Questa costosa e ambiziosa serie, iniziata nel 2015, ha avuto un ottimo successo di pubblico e critica negli Stati Uniti, un po’ meno nel resto del mondo, ove la sua ricezione è stata meno travolgente del previsto. In questo articolo tenteremo, oltre a dare un giudizio delle prime due stagioni, di capire il perché questa serie non abbia avuto il successo planetario che ci si aspettava.

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Partiamo subito con il dire che, per chi non lo sapesse, la serie s’ispira al bestseller La svastica sul sole di Philip K. Dick, autore anche del racconto Il cacciatore di androidi su cui si basa il capolavoro Blade Runner. Abbiamo usato il verbo ispirare, perché di questo si tratta, ossia che The Man in The High Castle è leggermente ispirata dal racconto del grande romanziere americano, e usare invece la dicitura “basata su” sarebbe assolutamente falso e fuorviante. Le numerose differenze tra le opere potrebbero essere oggetto di un lunghissimo articolo. Tali discrepanze sono dovute anche al fatto che il romanzo prevedeva dei seguiti che non sono mai stati scritti ad eccezione di due capitoli, quindi la serie è andata ad ampliare il mondo dell’unico romanzo completo.

Da molti anni, diverse case di produzione, tra cui la BBC, avevano l’intenzione di creare un adattamento del romanzo, salvo poi abbandonare il progetto data la complessità dell’opera dovuta sia alla sua particolare struttura narrativa sia perché la sua premessa è ad alto rischio di banalizzazione. Il romanzo si basa sull’accattivante idea :“e se le forze dell’asse avessero vinto la seconda guerra mondiale, come sarebbe il mondo?”. Tale input appare eccitante, intriso di innumerevoli spunti di riflessione e con un alto tasso di pathos. Ma Dick, da grande romanziere qual’era, sapeva benissimo del rischio di banalizzare il tutto con una storia d’azione e spionaggio e optò per una più saggia via, ovvero quella di basare il racconto sulla psicologia dei personaggi alle prese con un mondo dominato da un’ideologia terribile come quella nazista e da una cultura lontana come può essere quella giapponese. Per quanto una premessa possa essere interessante è il suo sviluppo che la rende un capolavoro o meno, altrimenti fioccherebbero libri e serie sulla stessa linea d’onda, come potrebbero essere opere introdotte da idee del tipo: “e se Napoleone avesse vinto a Waterloo?”, o ancora, “e se i mori avessero vinto le Crociate?”, tutto molto interessante, ma una premessa non fa certo la grandezza di un’opera artistica. La felice idea di Dick, ossia quella di creare un romanzo psicologico, ha fatto in modo che La svastica sul sole sia entrata di diritto nell’olimpo dei romanzi ucronici e di fantascienza.

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La problematica del difficile adattamento è emersa fin da subito agli occhi del creatore Frank Spotnitz — famoso per il suo lavoro su X-Files e in Italia per aver creato la mediocre serie I Medici — che dichiarò di aver voluto sempre portare il romanzo sullo schermo, ma che una volta trovatosi davanti alla possibilità di farlo ebbe tantissime difficoltà nel curare la trasposizione. Il risultato è stato quello di allontanarsi sempre di più dall’opera di Dick fino a farne una serie di spionaggio ucronico un po’ insipida, ma piacevole da guardare. Le difficoltà riscontratesi nella scrittura del soggetto sono facilmente identificabili in una delle testimonianze dello stesso Spotnitz, in cui afferma che uno degli ostacoli più grandi è stato dover ricavare dei cattivi in una storia che, a suo dire, non ha cattivi. Tale affermazione è davvero discutibile, poiché il male non ha bisogno per forza di un volto specifico, soprattutto se il romanzo beneficia del cattivo storico per eccellenza: i nazisti. Per quanto traspiri una probabile non comprensione del romanzo da parte di Spotnitz, il suo lavoro è più che sufficiente e dona una prima stagione — solo la prima si può giudicare, perché Spotnitz ha poi abbandonato il ruolo di showrunner — piacevole da guardare. Ma rimane sempre il dubbio del perché l’impronta profondamente psicologica del romanzo sia stata abbandonata a favore di un’azione leggermente fine a se stessa, sembra quasi che sia stata fatta passare l’idea che la natura del romanzo sia inconciliabile con la serie e che le due cose siano irrimediabilmente separate da due tipi di arti diverse come lo sono cinema e letteratura. Ma questa ci sembra una conclusione un po’ forzata, altrimenti non esisterebbe Leftovers, che con il suo mix di psicologia e fantastico ha fatto scuola e continua a farla, grazie soprattutto alla presenza di Tom Perrotta, ovvero l’autore del romanzo su cui Leftovers si basa.

Altri dubbi che emergono dall’adattamento è il ruolo che Ridley Scott ha avuto in tutto ciò, pur essendo solo il produttore, ci si aspettava un ruolo ben più attivo vista la sua amicizia con Dick nata ai tempi di Blade Runner. Scott era ed è assolutamente consapevole del carattere di Dick e soprattutto era a conoscenza della sua affezione per il proprio lavoro, che lo portò ad essere consulente della pellicola con protagonista Harrison Ford e che dopo numerosi rimaneggiamenti fece i complimenti al regista per aver reso così bene visivamente ciò che lui aveva immaginato nel suo racconto Il cacciatore di androidi. Per farvi intendere il Dick persona, ecco un aneddoto su una delle numerose proposte di sceneggiatura tratte dal racconto Il cacciatore di androidi (in questo caso su una precedente al progetto di Scott):«La sceneggiatura di Jaffe era fatta malissimo … Robert volò fino a Santa Ana per parlarmi del progetto. E la prima cosa che gli dissi quando scese dall’aereo era, ‘Devo picchiarti qui all’aeroporto oppure quando arriveremo al mio appartamento?’». Con questo spirito e carattere si può presupporre che la serie The Man in The High Castle sarebbe piaciuta poco allo scrittore. E forse Scott lo sa.

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Sappiamo che molti di voi penseranno, come vuole un’idea diffusa, che è inutile paragonare i libri e rispettive trasposizioni, in luogo al fatto che sono due arti diverse, due veicoli comunicativi diversi etc. e si può essere anche d’accordo con tale idea, però fino ad un certo punto. Se il cinema e la televisione volessero bypassare il confronto con i romanzi a cui molti loro prodotti s’ispirano, allora facessero solo opere originali, perché ahinoi il confronto è inevitabile, soprattutto quando l’opera originale viene stravolta oppure, molto più spesso, adattata non in maniera intelligente. L’importanza del rapporto libro/trasposizione è riscontrabile in molteplici esempi che esprimono le diverse nature di tale rapporto: Arancia Meccanica è un capolavoro perché, a detta di Burgess, completa il libro; Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright è amatissimo perché è fedele ed evocativo; La trilogia de Il Signore degli Anelli è apprezzata anche dai fan più accaniti dei libri perché è palpabile che di più non si poteva fare; Shining è un grande film perché pone il libro sotto un’altra luce in maniera intelligente ed alternativa; e potremmo continuare all’infinito. Se poi vogliamo restare fermi sulla convinzione che libri e trasposizioni non vanno paragonati e che ogni trasposizione va bene, allora, forse, ci meritiamo i film de Il Codice da Vinci, La lettera scarlatta e via discorrendo.

Analizzata la gestazione e la nascita della serie, ora, per rispondere alla domanda “perché una serie così ambiziosa è passata un po’in sordina?”, analizzeremo le prime due stagioni in attesa della terza. Elemento principale in comune con il libro è l’ambientazione: nel 1962 gli Stati Uniti, che hanno perso la guerra nel ’47 dopo che Washington è stata spazzata via da una bomba atomica, sono divisi in zone di controllo, ove gli stati del pacifico appartengono all’impero giapponese mentre gli stati dell’atlantico sono zona del Reich. Le zone di controllo sono divise dalla zona neutrale, fondamentalmente terre dimenticate da Dio, che fungono da cuscinetto tra le due potenze, che pur essendo alleate hanno un rapporto delicato fatto di tensione e sospetti, ciò è alimentato dalla voglia dei nazisti di avere l’egemonia sull’intero pianeta a discapito anche dei propri alleati, considerati, comunque, una razza inferiore.

USA in The Man in the High Castle

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La storia si svolge in questa ambientazione ucronica e dà voce a personaggi abitanti delle zone citate. Protagoniste assolute sono le città di San Francisco e New York trasformate dalle potenze occupanti in sedi estere del potere centrale. A San Francisco i personaggi principali sono Juliana Crain (Alexa Davalos), Frank Frink (Rupert Evans), Robert Childan (Brennan Brown), Joe Blake (Luke Klaintank), il ministro del commercio estero Nobusuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), Ed McCarthy (DJ Qualls) e Rudolph Wegener (Carsten Norgaard). Questi sono i personaggi che hanno il corrispettivo cartaceo, la cui psicologia (e anche i tratti fisici) in molti casi è sensibilmente diversa da quella del romanzo, ad eccezione dell’ottima trasposizione operata sui personaggi di Tagomi e Childan, anche se quest’ultimo, rispetto al romanzo, è relegato ad un ruolo leggermente inferiore. Per quanto riguarda ancora San Francisco tra i personaggi creati ex novo spicca sicuramente l’ispettore capo della Kempetai (polizia giapponese) Kido, interpretato magistralmente da Joel de la Fuente e rappresentante di una delle idee più felici avute da Spotnitz.

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Per quanto riguarda gli abitanti di New York, essi non sono presenti nel romanzo, e l’unico che vale la pena nominare è l’obergruppenführer John Smith, un militare americano divenuto un pezzo grosso del Reich dopo la caduta del suo paese. Questo personaggio è il piccolo capolavoro di Spotnitz, che grazie alla magnifica interpretazione di Rufus Sewell diviene il personaggio con maggior carisma, grazie soprattutto ad una storyline e ad una psicologia degna del romanzo di Dick e che salva, in parte, le altre infelici scelte del creatore della serie.

Le storie personali di molti di questi personaggi s’intrecciano quando tutti loro, per un motivo o per un altro, scoprono l’esistenza dei cinegiornali dell’Uomo dell’alto castello che presentano versioni alternative del loro mondo, in cui spesso gli alleati hanno vinto la guerra. Tali film sono l’ossessione del Fürher, che nella serie è ancora Adolf Hitler. I personaggi, con motivazioni diverse, troveranno una vera e propria ossessione per questi film, che diverranno, a seconda dei punti di vista, o l’esempio che realtà alternative sono possibili o un pericolo per l’esistenza del Reich. Va detto che nel romanzo il ruolo dei cinegiornali lo svolge il romanzo La cavalletta non si alzerà più che rende il lavoro di Dick un’opera metaletteraria. Per mantenere questa concezione, gli autori hanno deciso di cambiare il libro in cinegiornali, mantenendo l’importante concetto della metaletteratura trasformandola in metacinema. Scelta felice.

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Queste numerose storie di vita vengono valorizzate da una scenografia grandiosa e maestosa, ove la costruzione del mondo governato dai nazisti e giapponesi è bellissima da guardare. La scelta dei colori è accurata e dona una forte caratteristica alla serie, che potrebbe far invidia a qualsiasi Graphic Novel d’autore tanto è perfetta la resa dei colori. Il tutto reso ancora meglio attraverso una fotografia che sembra far calare una cortina di fumo sull’intero contesto quasi ad accentuarne la natura alternativa del mondo in questione, a metà strada tra sogno e realtà. Inoltre, la costruzione degli edifici lascia a bocca aperta, e ciò si nota soprattutto nella seconda stagione, quando Berlino diviene un luogo centrale per la storia. Ad esempio di ciò basti pensare alla realizzazione del Volkshalle, un edificio adibito a sala per i discorsi del Fürher che Hitler aveva commissionato all’architetto Albert Speer, e che non riuscì mai a realizzare. L’unione di set fisici realmente esistenti e digitalizzazione è stata la sfida più grande per lo scenografo Andrew Boughton, che studiando sui progetti originali del tempo è riuscito in un’impresa titanica e visivamente formidabile che cattura lo spettatore. Guardate il video seguente per farvi un’idea generale del lavoro, e l’immagine successiva per quanto riguarda la realizzazione del Volkshalle:

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palazzo del popolo

 

La recitazione spesso lascia a desiderare (spesso inadeguata quella dei personaggi minori, come ad esempio quella da cartone animato di Burn Gorman), soprattutto quella di Alexa Davalos nei panni della protagonista Juliana, che è praticamente mono espressiva, provocando un danno enorme alla serie data l’importanza del ruolo. Non convincenti neppure le performances di Rupert Evans (Frank Frink) e Luke Klaintank (Joe Blake), che innervosiscono per la loro mancanza di naturalezza e donano dei personaggi non credibili. Tali cattive interpretazioni, vengono bilanciate, oltre a quelle già citate di Rufus Sewell e Joel de la Fuente, da quelle di Cary-Hiroyuki Tagawa nei panni del ministro Tagomi, che oltre ad essere un personaggio fedelissimo al libro è anche uno dei migliori della serie. Tagawa regala attimi di altissima recitazione, in cui in alcune scene porta anche a commuoversi. Inoltre al ministro viene relegato il compito di esprimere la filosofia dell’ I Ching, ovvero il libro dei mutamenti, che viene usato per conoscere il futuro ed ha un ruolo fondamentale nel romanzo, usato come espediente per dare un contraltare al senso di storicità. Bravo anche Brennan Brown nei panni dell’antiquario Childan, che pur avendo un ruolo più piccolo rispetto al romanzo, coglie in pieno lo spirito del personaggio, fino al punto da poter sovrapporre la sua immagine a quella immaginata dai lettori di Dick.

Proprio a Childan vengono affidate le scene e i dialoghi presi interamente dal lavoro cartaceo, risultandone le parti più interessanti della serie. All’antiquario è affidato il compito di dare voce a due concetti chiave dell’opera, ovvero il senso di storicità e il senso di oppressione degli occupati che si trasforma in una forma di riverenza verso gli occupanti. Il primo concetto vive nelle scene in cui Childan spiega cosa fa di un oggetto un reliquia storica (scena dei due Zippo e giudizio sull’arte di Frank), mentre il secondo è reso efficacemente nella scena in cui Childan va a cena da una coppia di facoltosi giapponesi dimostrando il suo stucchevole servilismo nei confronti di una cultura che lo disprezza profondamente (la scena è identica a quella del romanzo). Da quest’ultima scena, però, la serie prende uno sviluppo interessante che nel romanzo non viene considerato, ovvero un rifiuto di idealizzare la cultura giapponese, tale idea viene presentata sempre attraverso Childan, ormai ferito nell’orgoglio, che accusa i giapponesi di saper solo imitare gli altri popoli.  il libro è pervaso dalla idealizzazione di tale cultura e che al tempo fu molto criticata data l’inesattezza storica di questo punto di vista, basti pensare alla crudeltà dimostrata dai giapponesi nell’avanzata in Manciuria.

Tutte queste caratteristiche elencate fin ora sono presenti in entrambe le stagioni, che tutto sommato si equivalgono pur essendoci un decisivo cambio di ritmo, votato più all’azione, nella seconda. Resta da vedere cosa succederà nella terza stagione con l’ormai consolidata presenza di un nuovo showrunner. Curiosità coadiuvata dal fatto che ormai lo sviluppo è completamente nelle mani della serie, poiché, come detto, il romanzo è stato ormai superato da un pezzo.

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In conclusione, finalmente, possiamo rispondere alla domanda postaci all’inizio di questo articolo, vale a dire: “perché una serie così ambiziosa è passata un po’in sordina?”. La prima risposta, quella più intuitiva, che ci viene in mente, è che risulta sempre difficile emergere nel mare composto dalle numerose serie tv che attualmente invadono i nostri schermi. La risposta meno intuitiva, e qui azzardiamo una riflessione, è che la serie ha sofferto della perdita del primo bacino di utenza a cui faceva riferimento, ossia i fan di Dick e del romanzo La svastica sul sole, che sicuramente hanno sofferto le troppe differenze con l’opera originale.

Detto ciò, consiglio che viene da darvi prima di concludere e di invitarvi alla prossima puntata di In Sordina: Serie tv, è di recuperare The Man in the High Castle, di godervi i suoi pregi ed una volta terminata la visione, se volete, recuperare il romanzo, da far in modo così di avere un quadro completo. Può sembrare atipico vedere prima la trasposizione e poi recuperare l’opera cartacea, ma ci sembra che questo sia l’unico modo per apprezzare fino in fondo questa ambiziosa serie targata Amazon.

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