Si può avere la pelle d’oca per un’ora e quaranta minuti? assolutamente si, se ci si ritrova dinanzi a dei giganti, a delle leggende viventi. Quante icone della Storia camminano ancora tra i vivi? Beh, a parte Diego Armando Maradona, il primo nome che mi viene in mente è quello di una band: i Rolling Stones. Solo il Diez argentino e la rockband inglese mi danno ancora la sensazione di essere Dei tra gli uomini pur molti anni dopo la loro nascita e la loro ascesa, sensazione che la maggior parte delle volte dona solo la morte, prematura e non, degli individui che hanno lasciato un’impronta nella caotica storia umana. In questa aria di mitismo nasce un piccolo capolavoro, il documentario sul tour del 2016 in america latina dei Rolling Stones, ovvero The Rolling Stones Olé Olé Olé!: A Trip Across Latin America, che sbarcherà al cinema il prossimo 10 aprile.
Cinquanta anni di carriera passati senza mai fermarsi, sempre sulla cresta dell’onda, sempre al passo coi tempi, riassumibili in una semplice e caratterizzante frase:“c’è un Cristoforo Colombo dentro di noi che vuole scoprire cosa c’è dietro l’angolo”. Tale atteggiamento nei confronti della vita ha fatto degli Stones un esempio da seguire, degli oracoli da ascoltare, dei ribelli da appoggiare, e ciò è chiarissimo ed è reso ancora più cristallino da questo particolare documentario. Non è un caso che i luoghi ove si muove il film diretto da Paul Dugdale sia l’America Latina, luogo in cui il rock non ha mai avuto il favore del potere ma sempre amore incondizionato dalla gente, attraverso la storia di questo continente si esalta la forza della cultura nel distruggere i muri dell’autorità, e tra le tante “teste di ariete” di quest’ultima rientrano anche i Rolling Stones.
In America Latina negli anni sessanta e settanta, durante i regimi delle numerosissime dittature militari, chi ascoltava il rock and roll, seguendone le sue mode e i suoi credi, era condannato al carcere e all’oppressione, proprio l’atteggiamento che fa crescere l’orgoglio di chi è oppresso, poiché come dice Keith Richards: “appena proibisci una cosa, crei un movimento intorno a questa cosa…i ribelli la prendevano a cuore”. E allora parte un lungo viaggio, un lungo ritorno verso quelle terre a cui in passato fu proibito di professare la propria “fede” musicale, poiché il potere aveva paura di vedere tante persone riunite in un solo posto, addirittura in Messico dopo un festival nel 1985 fu proibito il Rock, “ma fermare il rock, è come fermare la vita” dicevano in molti. Il tour del 2016 quindi prende un sapore diverso, non un semplice spettacolo di musica, ma un mettere il punto ad anni di oppressione, piantando la bandiera della libertà d’espressione su quelle terre che avevano conosciuto tante assurde censure. E via passando per il Cile, il Brasile (quattro date), l’Argentina (tre date nella terra in cui ci sono i Rolinga, vera e propria tribù urbana che vive con il culto degli Stones), il Messico (due date), il Perù, la Colombia, l’Uruguay, gli Stones ripercorrono la loro storia e quella del continente, orgogliosi di aver contribuito all’emancipazione di questi popoli, coronando la “rivoluzione” il 25 marzo con la difficilissima tappa all’Avana dinanzi a migliaia di cubani in estasi, in una vera e propria, e cito, “overdose di libertà”. Il concerto cubano fa da filo rosso all’intero documentario, infatti le singole tappe vengono scandite dalle testimonianze della difficilissima organizzazione del concerto nell’isola caraibica, che avveniva in un momento storico delicatissimo, caratterizzato dall’apertura della presidenza Obama verso il governo castrista e dalla fine dell’embargo, ma intriso di una fragilità prevedibile dato lo shock che un paese intero stava per affrontare dopo sessant’anni di ostilità. Le date verranno cambiate molte volte, i dialoghi con l’establishment cubano saranno resi difficoltosi dalla arcaicità dei mezzi di quest’ultimo e dalla mole di avvenimenti storici che si abbattevano rapidamente su quel pezzettino di mitica terra. Ad esempio di ciò si può riportare il rinvio di cinque giorni dalla data originale (20 marzo) per una causa incredibile, ovvero la visita del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, talmente incedibile da far dire a Mick Jagger: “per ottant’anni un presidente americano non ha messo piede a Cuba e lo fa proprio quando dobbiamo suonare noi?”. Fu come se la storia fosse ripartita tutta in un botto, avvilendo il governo cubano, che non voleva assolutamente che ci fosse un’ondata imponente di una cultura per anni rifiutata e che aveva rifiutato per anni Cuba, quindi si decise di separare gli eventi per non creare qualcosa di estremamente sgradevole per le autorità cubane. Per un momento s’intromise anche il Papa sostenendo che non fosse consono fare un concerto degli Stones il venerdì santo, e tale dichiarazione spinse il governo di Castro a chiedere un ulteriore rinvio dello show (strana ideologia quella catto-comunista, quasi un ossimoro), ma a quel punto l’entourage della band s’impose e tutto fu confermato per il 25 marzo a la Ciudad Deportiva de La Habana, “ancora una volta è la musica che fa attraversare il ponte”.
Il tour e questo complicato e suggestivo viaggio è condito da immagini bellissime dei paesi citati, dalle testimonianze dei cittadini divise tra la gioia dei giovani e la commozione degli anziani, dagli aneddoti dei componenti della band, come la divertente genesi del brano Honky Tonk Woman, e da degli interessantissimi ritratti di quest’ultimi. Si parla del delicato, inteso e difficile rapporto tra Jagger e Richards, della profonda anima artistica di Wood rappresentata con l’intenso incontro con l’artista e amico Ivald Granato , e dal meraviglioso senso di distacco di Watts per ciò che era ed è il mondo della musica: “io sono un po’ fuori dallo show business, sono un sacco di stronzate”. Ovviamente, a fare da protagonista è la musica immortale, e colpisce davvero che una band composta di settantenni riesca a donare delle performances che molti gruppi di oggi non possono neppure sognare di emulare, sia per carisma che per tecnica. E allora si viene trasportati in un onda emotiva potente composta da paesaggi incantevoli, culture antiche, nostalgie, tutto sulle sulle note di Sympathy for the Devil (che apre il documentario), Paint it Black, Miss you, Brown Sugar, I just want to see his face, Love is strong, Moonlight Mile, Wild Horses e tante altre pietre miliari del rock, per poi chiudere con la calzante Let it loose, il tutto a testimoniare che ciò non è una semplice serie di concerti ma un viaggio nella storia recente, fatto di musica, di ribellione, di libertà, e voglia di riscatto.
Infine, a fare da protagonisti sono le persone, quantificate dai dati in un milione e trecento mila, ma che esulando dai numeri hanno individualmente dato un impronta a questo viaggio, grazie alle loro lacrime, risate, testimonianze, lotte che hanno fatto in modo che la musica dei Rolling Stones sia stata viva anche contro tutte le avversità della storia e della politica, liberando per un momento gli stessi artisti della band dall’etichetta di star miliardarie e incoronandoli come figure che hanno ispirato intere generazioni. L’emozione più grande che resta di questo documentario è l’aver visto la bellezza che si crea quando gli individui si uniscono, non sotto una bandiera, ma sotto un’emozione, e ciò è davvero incredibile e magico, poiché come dice Keith Richards: “non è una cosa razionale l’affinità umana”.
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