Un viaggio nella storia di Dracula
Seguiteci sempre anche su LaScimmiaPensa e iscrivetevi al nostro canale WhatsApp
C’è un’ombra di terrore che attraversa febbricitante la storia del cinema. Un’ombra che non invecchia, non svanisce, ma si trasforma. È quella di Dracula, il vampiro per antonomasia, il principe delle tenebre che, più di ogni altro personaggio, ha saputo incarnare le paure e i desideri di un secolo intero. Da Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau a Dracula – L’amore perduto (2025) di Luc Besson, la figura del vampiro ha mutato pelle infinite volte, riflettendo la coscienza collettiva di ogni epoca.
In questo viaggio attraverseremo tutte le reincarnazioni del Conte, dai silenzi di Murnau ai bagliori digitali del XXI secolo. Pronti? Chiudete le finestre, accendete una candela e lasciate entrare l’ospite.
L’origine del mito: Murnau e l’estetica dell’incubo
Nel 1922 il cinema era ancora muto, ma Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens urlava ugualmente. Murnau non poteva usare il nome “Dracula”, i diritti del romanzo di Bram Stoker erano ancora protetti. Il Nosferatu di Murnau fu tecnicamente un film “pirata”. La vedova di Bram Stoker citò in giudizio la casa di produzione e ottenne la distruzione di tutte le copie. Per fortuna, alcune pellicole sopravvissero, come il vampiro stesso, nascoste in collezioni private.
E così nacque il Conte Orlok, interpretato da Max Schreck, il cui nome, ironicamente, significa “terrore”.
La pellicola è un capolavoro dell’espressionismo tedesco: ombre allungate, geometrie distorte, luce e oscurità che diventano personaggi. Nosferatu è il vampiro come pestilenza, metafora della paura post-bellica e della morte che avanza silenziosa dopo la Grande Guerra. La sua figura deforme non seduce, contamina. È l’orrore dell’inumano, la dissoluzione dell’ordine razionale.
Universal Studios e la nascita del vampiro elegante
Il 1931 segna una svolta epocale: Dracula di Tod Browning, prodotto dalla Universal, introduce il fascino magnetico di Bela Lugosi.
Qui il vampiro non è più una creatura ripugnante, ma un aristocratico decaduto, raffinato, vestito di nero, con un accento ungherese e uno sguardo ipnotico.
Lugosi definisce per sempre l’archetipo del Dracula cinematografico. È il male che seduce, la malattia che si insinua attraverso l’erotismo. Nel pieno del codice Hays, che censurava la sessualità esplicita, il morso del vampiro divenne metafora di desiderio proibito.
Nel 1931, molte copie di Dracula vennero tagliate per le scene in cui Lugosi fissava sensualmente le vittime. La Universal dovette ridurre i tempi di sguardo del conte sulle donne a meno di 5 secondi per non “disturbare il pubblico femminile”.
Oggi quelle scene sono state restaurate integralmente.
L’attore ungherese Bela Lugosi amò così tanto il ruolo di Dracula che chiese di essere sepolto con il costume di scena.
Gli anni ’50 e ’60: Hammer Films e l’esplosione del gotico
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa riscopre i propri fantasmi.
La Hammer Films, casa di produzione britannica, riporta in vita Dracula nel 1958 con Dracula il vampiro (Horror of Dracula), diretto da Terence Fisher.
Il volto del conte è quello di Christopher Lee: alto, imponente, con occhi iniettati di sangue e un erotismo animalesco.
La Hammer reintroduce il colore, un rosso saturo e vivo, quasi pornografico, e spinge sulla sensualità. Le donne non sono più vittime innocenti, ma complici o tentatrici. Il vampirismo diventa una danza erotica tra Eros e Thanatos, tra morte e desiderio.
Lee interpreterà Dracula per oltre dieci anni, da Dracula, principe delle tenebre (1966) fino a Dracula 1972 d.C., dove il conte si muove in un mondo contemporaneo, sradicato, quasi spaesato: il male non abita più nei castelli, ma nelle città.
Gli anni ’70 e ’80: la decostruzione del mito
Il cinema degli anni Settanta si fa politico e psicanalitico. Werner Herzog, nel 1979, decide di rifare Nosferatu, ma a modo suo. Nosferatu, Phantom der Nacht è un film di malinconia e bellezza tragica. Klaus Kinski, volto segnato e sguardo folle, interpreta un vampiro stanco, solitario, quasi umano nella sua disperazione.
Herzog fece una scelta curiosa: fece camminare Kinski sempre leggermente inclinato in avanti, come un corpo tirato verso l’abisso. “Non è il male che cammina”, diceva, “è la solitudine che trascina un corpo.” È un Dracula metafisico, vittima della propria immortalità.
Herzog, come Murnau, usa il vampiro come allegoria dell’Europa malata: un continente che ha perso l’anima, divorato da sé stesso.
Pochi anni dopo, nel 1979, John Badham realizza Dracula con Frank Langella: un ritorno all’eleganza, ma con una sensualità apertamente dichiarata. Il conte è un amante tormentato, più che un mostro. È l’epoca in cui anche l’orrore scopre la psicologia.
Negli anni ’80, il vampiro cambia ancora: si fa pop. In The Hunger (1983) di Tony Scott, Catherine Deneuve e David Bowie incarnano vampiri newyorkesi, eternamente giovani e bellissimi.
Il film è un inno alla decadenza estetica, un videoclip gotico intriso di erotismo e solitudine.
Il vampiro, qui, è il simbolo della cultura del consumo e dell’edonismo che divora se stesso.
Francis Ford Coppola e la rinascita romantica del mito
Il 1992 segna un nuovo apice con Dracula di Bram Stocker diretto da Francis Ford Coppola. Una dichiarazione d’amore al cinema stesso: gotico, barocco, teatrale.
Gary Oldman è un Dracula stratificato: guerriero, amante, demone e vittima.
Il film recupera l’idea originale di Stoker, il vampiro come simbolo di corruzione e redenzione, ma lo fa attraverso un’estetica di eccesso visivo e un linguaggio che fonde Shakespeare, il melodramma e l’horror.
Coppola gira tutto in camera, senza effetti digitali, per evocare la magia del cinema delle origini. E ci riesce: il film è un sogno febbrile, dove il sangue è luce e l’amore è maledizione. Dracula diventa definitivamente un personaggio tragico, vittima del tempo e del desiderio di eternità. È l’ultimo grande vampiro “serio” del Novecento.
Dal mito al mercato: gli anni 2000 e il vampiro postmoderno
Il nuovo millennio svuota Dracula della sua aura gotica per farne un simbolo pop, un’icona commerciale. Van Helsing (2004), Dracula Untold (2014), e perfino le saghe Blade e Underworld lo trasformano in un eroe d’azione, muscoloso e digitale. Il sangue non è più orrore, ma spettacolo. L’oscurità diventa un effetto speciale, e il mito si frammenta in mille versioni.
Parallelamente, il vampiro viene addolcito per un pubblico giovane: Twilight (2008) e The Vampire Diaries rendono il morso un gesto d’amore adolescenziale. È l’epoca in cui la paura lascia spazio al desiderio di appartenenza: il vampiro non spaventa, consola.
Dracula, in tutto questo, rimane sullo sfondo, ma la sua ombra aleggia su ogni volto pallido e su ogni storia d’amore immortale.
La parodia e la reinvenzione
Non si può ignorare il ruolo della parodia nel percorso del conte.
Dracula: Dead and Loving It (1995) di Mel Brooks ironizza sui cliché del genere, con Leslie Nielsen in versione vampiro pasticcione. Eppure anche nella risata c’è un omaggio: il mito è talmente radicato che può essere deformato senza perdere potenza.
Negli anni recenti, What We Do in the Shadows (2014) di Taika Waititi trasforma i vampiri in coinquilini nevrotici. Il mito, ormai, è linguaggio comune: un codice culturale con cui scherzare, discutere, riflettere.
Luc Besson e la modernità del mito
Nel Dracula – Una storia d’amore di Luc Besson, il mito immortale del vampiro si trasforma in una ballata sulla perdita e sulla memoria. Non è più il conte oscuro che incarna il male, ma un uomo trafitto dall’eternità, condannato a rivivere nei secoli la ferita di un amore perduto.
Besson ribalta l’immaginario gotico tradizionale e costruisce un Dracula malinconico, quasi mistico, sospeso tra luce e ombra, che non cerca sangue ma redenzione. La sua immortalità non è privilegio, ma punizione: un tempo dilatato in cui l’attesa diventa fede.
Tutto, nel film, ruota attorno a un sentimento assoluto, l’amore che sfida la morte, raccontato con il lirismo visivo tipico del regista francese, dove il colore, la luce e il silenzio diventano i veri protagonisti. In questo Dracula non sopravvive il mostro, ma l’uomo che, nel suo eterno vagare, continua a credere che ogni notte custodisca una possibilità di rinascita.
Il simbolismo di un paradigma immortale
Attraverso cento anni di cinema, Dracula è mutato come la luce sul suo volto. Da spettro della peste a icona erotica, da mostro a amante, da aristocratico decadente a supereroe stanco. Ogni epoca ha avuto il Dracula che meritava.
Negli anni ’20, era il trauma della guerra.
Negli anni ’50, la repressione sessuale.
Negli anni ’70, la crisi d’identità.
Negli anni 2000, la perdita del mistero nell’epoca della tecnologia.
Eppure, dietro ogni metamorfosi, resta un nucleo costante: il desiderio di eternità.
Dracula è la proiezione del nostro rifiuto della morte, ma anche il simbolo del prezzo dell’immortalità. Come scriveva Nietzsche, “chi lotta con i mostri deve guardarsi dal diventare egli stesso un mostro”. Il Conte, in fondo, è l’uomo moderno che sì ha vinto la morte, ma ha perso l’anima.