Berlusconi, la prima repubblica e il cinema

Il 1994 rappresenta una cesura fondamentale per la storia politica e culturale dell'Italia, tra il fallimento della Prima Repubblica e l'arrivo di Silvio Berlusconi

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Level two: il coccodrillo di Nanni

Un gioco di scatole cinesi. Questo potrebbe essere l’identificazione più esatta del film di Nanni Moretti del 2006: nel momento in cui chiedendosi chi è il Caimano, la risposta va a Silvio Berlusconi, ma chiedendosi chi è Silvio Berlusconi la risposta si rifrange in mille brandelli; ma anche quando il film si fa metacinema con un set nel set, e quando il fallimento professionale si riflette sulla vita privata.

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Il Caimano è l’erede diretto di Aprile e de La Cosa, e si inserisce con veemenza nel dibattito pubblico esasperando il conflitto in varie forme, tanto che lo stesso personaggio viene interpretato da tre attori diversi (lo stesso Moretti, Michele Placido, Elio De Capitani) rendendo plastica la mancanza di una cinematografia militante su Berlusconi stesso.

A colmare in parte la lacuna ci penserà sempre Sorrentino, non però nella forma sperata; solo Franco Maresco riuscirà nell’impresa, restando però un’isola.

Intermezzo: storie siciliane e calabresi

Cos’è il cinema espanso? È un tipo di cinema che offre opere per le quali è necessario estendere la lettura al di là del testo, ampliandone la prospettiva. E allora il cinema espanso è il cinema di Franco Maresco, ed è Belluscone – Una storia Italiana (2014): testimonianza di un fallimento (ovvero il tentativo, del geniale autore siculo, di realizzare un film su Berlusconi), lentamente e autarchicamente scivolata nella dimensione del documentario antropologico sulle mutazioni sociali viste attraverso quel fenomeno di culto che è, appunto Berlusconi.

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L’inchiesta diventa allora un work in progress riflesso di un film in continua evoluzione, un mistero tanto affascinante quanto sordido che insegue una realtà che -per dirla con Rohmer e i Cahierssi sgretola nelle mani di chi la cerca. Belluscone è, oltre che un capolavoro, una ricostruzione vertiginosa e labirintica di un paese a brandelli, un abbindolamento generale, una ricerca senza fine.

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Incredibile a dirsi, ma c’è un altro insospettabile che è riuscito a fotografare il paese del trentennio in maniera sottile e tagliente, pur se prendendo la strada del sorriso, anzi del riso: è Antonio Albanese, che ha reso il suo personaggio/maschera di Cetto Laqualunque protagonista di ben tre film (Qualunquemente, 2011; Tutto Tutto Niente Niente, 2012; Cetto C’è, Senzadubbiamente, 2019).

Razzista, xenofobo, maschilista, sessuomane, maschera volgare stretta tra una modernità mediocre e un tradizionalismo bigotto, Cetto è lo specchio neanche tanto deformato di una deriva politica sempre più allarmante, che annega nella propria ignoranza ma usa il qualunquismo per prendere voti, e la comicità fallocentrica per far breccia nel popolino più retrivo ma ancora votante. 

Ultimi fuochi

Non restano allora che una manciata di film a tentare di ricomporre l’enigma Berlusconi. Loro 1 e Loro 2, (usciti a qualche mese di distanza uno dall’alto nel 2018) un dittico quasi maledetto (non è attualmente reperibile su nessuna piattaforma né in dvd, dopo essere passato fugacemente al cinema dove doveva tornare con una versione ridotta di entrambi i capitoli messi insieme, vista però solo al Toronto International Festival) sul tramonto del berlusconismo.

Difficile da immaginare, ma anche il regista de Il Divo è rimasto avvinghiato nella rete vischiosa dell’oggetto del suo film: tra l’intenzione di raccontarne i vizi privati e la necessità di non nascondere le pubbliche virtù, Loro non riesce a scalfire l’aura intorno al leader di Arcore, anche per l’eccellente prova del solito Servillo sotto la maschera del biscione meneghino.

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Perché l’immagine che i film restituiscono del loro protagonista è quella di un sovrano decaduto messo a nudo e incapace di liberarsi da sé stesso e dall’immagine che lui stesso si è costruito addosso. Non c’è (ma forse neanche doveva esserci) nessuna stoccata, nessun je accuse politico sullo stile di Moretti, ma purtroppo in Loro c’è solo una malinconica amarezza che non sa andare oltre la maschera, come se proprio lo stesso Sorrentino sia stato appunto incapace di andare oltre i lineamenti di superfice.

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Come concludere meglio, allora, il cinema del trentennio se non tornando alle origini? Perché nel 2020 esce Hammamet, di Gianni Amelio, resoconto degli ultimi giorni di vita di Bettino Craxi, Presidente del Consiglio dei ministri dal 1983 al 1987, segretario del PSI dal 1976 al 1993, uno degli uomini politici più rilevanti nella storia della Repubblica Italiana, coinvolto nell’inchiesta di Mani Pulite nella quale subì due condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito al suo PSI.

Craxi morì latitante nel 2000 ad Hammamet, mentre erano in corso altri quattro processi contro di lui: e sono proprio questi i giorni che prende di mira Gianni Amelio mentre cerca di restituire i sentimenti controversi verso la figura dello statista. Hammamet, oltre ad essere uno degli esiti più felici dell’altalenante carriera del suo autore, riprende Craxi nel momento della fine, facendola coincidere con la fine della politica italiana.

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E il personaggio non viene così né assolto né condannato, ma rimane così, sospeso in mezzo, sotto un cielo a metà strada fra un plumbeo grigio e un timido albeggiare, rendendo emotivamente coinvolto il pubblico non tanto sulla vita (per la quale, appunto, si rimane interdetti) bensì su una morte che ritrova la sua dimensione umana.

E IN TV?

Sky Atlantic, da un’idea di Stefano Accorsi, ha sviluppato una trilogia seriale: 1992, 1993, 1994, tre stagioni consequenziali che raccontano proprio Tangentopoli e Mani Pulite, con una trama sospesa tra realtà e finzione, inserendo nelle vite dei politici alcuni personaggi inventati, tutti però accomunati dalla credibilità (dalla soubrette al pubblicitario, dal parlamentare al leghista), tutti con interpreti efficaci (lo stesso Accorsi, Guido Caprino, Myriam Leone tra gli altri).

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L’intuizione è ovviamente buona, l’argomento affascinante dal punto di vista dello storytelling: peccato però che la trilogia sembri alla fine una bella occasione sprecata, per una povertà di scrittura evidente, per le continue forzature narrative per fare andare la storia dove deve andare senza nessuna scorrevolezza, colpi di scena troppo teatrali per far mantenere salda la famosa  necessaria sospensione dell’incredulità.

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