Greta Van Fleet: The Battle at Garden’s Gate | RECENSIONE

Greta Van Fleet
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I Greta Van Fleet sono nell’occhio del ciclone ormai già da un po’ di tempo. Croce e delizia del rock hanno diviso gli ascoltatori da subito. I loro primi lavori erano estremamente simili nel sound e nelle scelte stilistiche ai leggendari Led Zeppelin. La cosa quindi era da qualcuno vista come un bellissimo tributo da altri come un mero “furto”. I giovani del Michigan sono arrivati però al loro secondo lavoro in studio (contando i soli LP) con The Battle at Garden’s Gate.

Cercando di essere del tutto sinceri, siamo sempre stati estremamente critici verso la band. Il primo album Anthem of the Peaceful Arm ci è sembrato un primo passo verso una propria identità ma non era abbastanza. Con una pandemia di mezzo e la perdita dell’esplosione mediatica iniziale questo nuovo album è il vero banco di prova dei Greta Van Fleet. Come si sono comportati quindi le giovani promesse del rock?

Alla ricerca di nuove fonti.

Sembra palese fin dal primo ascolto che questo The Battle at Garden’s Gate sia un album ispirato, decisamente più elaborato e che vuole (con più decisione) scrollarsi di dosso l’accostamento con i Led Zeppelin. Parliamoci chiaro, il sound resta sempre di chiara ispirazione ’60/’70 ma ci troviamo davanti a qualcosa di più ricercato rispetto ai primi lavori. Il ventaglio si apre quindi a nuove fonti.

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Tempi complessi e sincopi ci ricordano, molto vagamente, i classici dei Rush (complice anche la voce molto acuta) mentre nel complesso l’album sceglie una deriva più psichedelica alla Jefferson Airplane. Oltre a questo, la seconda fatica della band è un album moderatamente lungo, sopra i 60 minuti, e le canzoni si prendono anch’esse più tempo. Questo dimostra, secondo noi, una maturazione e una scrittura più attenta e meno di getto.

Buona musica per chi la vuole apprezzare.

Se le dinamiche compositive sono cambiate in meglio, la voce di Joshua Kiszka sembra cercare sempre la medesima soluzione. Questo rende il disco meno armonico perché la voce, fiore all’occhiello della band, rischia di risultare monotona. Oltre a questo sappiamo bene che i Greta Van Fleet abbiano un target ben specifico: gli orfani del grande rock del passato. Chi è alla ricerca di novità e sperimentazione è giusto che si rivolga altrove. Chi invece ritiene fermamente che il rock, quello bello, si sia fermato 50 anni fa allora avrà del buon pane per i suoi denti.

The Battle at Garden’s Gate è un vero e proprio viaggio. Per quanto lo si voglia trasformare in psichedelico, questo trip è enormemente concreto: il percorso della band fino a oggi. La prima metà risulta più varia e più coraggiosa rispetto alla meta, dove le canzoni si susseguono in modo più ripetitivo. Tra i pezzi più iconici possiamo trovare Broken Bells, ballad di ampio respiro, Built by Nations, la più rushiana e Age of Machine con cori e aperture più cosmiche.

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Se nella seconda parte possiamo trovare meno canzoni d’impatto, il disco si chiude con l’ottima The Weight of Dreams. Il brano in questione è il più lungo composto dalla band e si basa su una lunga progressione, un continuo climax che porta a un lungo solo di chitarra, prima della chiusura definitiva. Si tratta di una della canzoni che rispecchiano maggiormente l’album e che caratterizzano il leggero cambio di rotta dei Greta Van Fleet.

Nuovi Greta Van Fleet, vecchi Greta Van Fleet.

Il cambio di ritmo, più che di rotta, è palese e anche chi non è riuscito a digerire l’esordio della band potrebbe trovarsi di fronte a un lavoro più vario e originale. Parte del merito potrebbe andare anche al produttore, Greg Kurstin, icona della discografia mondiale. Quel che è certo è che i Greta Van Fleet stanno cercando nuovi approcci al loro revival rock restando alla continua ricerca della propria vera identità. Probabilmente è proprio questo il tratto caratteristico della band, “la ricerca dell’identità può esser essa stessa l’identità”.

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