Taxi Driver – Musica e film

film sulla follia
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Taxi Driver: la musica come espressione degli stati d’animo di un folle perso in una grande città.

Nel capolavoro di Martin Scorsese, la musica è affidata a Bernard Herrmann. Compositore tra i principali della Hollywood classica, che ha lavorato soprattutto con Alfred Hitchcock, passando poi anche per registi stranieri come Francois Truffaut (in Fahrenheit 451, 1966). Scorsese, che è un regista della New Hollywood, è un attento conoscitore del cinema classico.

Di più, in quanto studente di cinema, viene necessariamente influenzato di ritorno dai critici della Nouvelle Vague (Truffaut, Jean-Luc Godard, Cluade Chabrol, Eric Rohmer), che in quel periodo stavano insegnando agli americani ad apprezzare nuovamente il loro proprio cinema. E tra i registi esaltati da questi critici figurano nomi come quello di Howard Hawks e quello, appunto, di Alfred Hitchcock. Già la scelta del nome di Herrmann significa quindi, per Scorsese, omaggiare tutta una certa tradizione cinematografica, volendosi porre in continuità di quella tradizione.

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La scelta della musica jazz, poi, è un altro particolare importante. Come vi abbiamo raccontato già in altri articoli, e in particolare in quello dedicato a Psycho di Hitchcock, Herrmann lavorava storicamente con le orchestrazioni. L’adozione di una colonna sonora jazz può rimandare a diversi riferimenti. Primo, alla città di New York, della quale questa musica è sempre stata il cuore pulsante. Basti pensare a Charlie Parker, Miles Davis, Thelonious Monk.

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Secondo, il rimando è ad un certo tipo di revival noir, attuato dai francesi della Nouvelle Vague durante gli anni ’60, e spesso con colonne sonore jazz (il film Fino all’ultimo respiro di Godard è un esempio classico). Questi film fanno scuola, ed ha certo senso poi che quando gli americani si aggiornano, vogliano omaggiare queste pellicole in ogni particolare d’atmosfera, comprese le musiche.

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Il tema jazz di Taxi Driver diventa così il vero accompagnamento del personaggio ramingo e solitario di Travis Bickle, che vaga per le strade sporche e rumorose della città senza trovare pace per la propria inquietudine. I fiati di Herrmann esprimono gli stati d’animo di Travis, a volte superficiali, a volte indagatori, a volte cinici, spesso oscuri. L’alternanza di toni acuti e gravi serve ad anticipare e a rendere lo spettatore consapevole della schizofrenia del protagonista. Che poi, com’è noto, esploderà nell’escalation finale.

Schizofrenia che, in uno dei finali più significativi della storia del cinema, sembra rimanere anche dopo il vortice di violenza che dovrebbe costituire il climax catartico di Travis. Nella scena che potete vedere qui sotto,Travis sembra essere finalmente guarito, e dà un passaggio in taxi alla donna che lo aveva precedentemente rifiutato. Tutto bene quindi? No, perché ad un certo punto egli guarda fisso lo specchietto retrovisore, convinto di aver visto forse qualcosa (la sua paura?). Compie uno scatto, ma è il crescendo improvviso della musica, subitaneo, quasi impercettibile, in quel punto, che ci rende davvero partecipi della sua paura. E ci fa capire che per Travis la pazzia è tutt’altro che svanita.

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