Rosemary’s Baby – La recensione del film

Rosemary
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“Ha gli occhi di suo padre”

 

Rosemary Woodhouse (Mia Farrow) e suo marito Guy (John Cassavetes), di professione attore, si trasferiscono in un appartamento di un vecchio caseggiato di New York, il Bramford. Un amico paterno della coppia, Hutch, durante una cena racconta loro che nel vecchio e spettrale edificio hanno abitato alcuni rinomati e sinistri personaggi, tra cui le sorelle Trent, specialiste nel preparare pranzi a base di carne di bambino, e il famoso satanista Adrian Marcato. Ma come si può credere che nella New York del XX secolo esista una congrega segreta di satanisti e streghe?.

Ben presto però avviene un caso di morte nel caseggiato, una giovane donna ospite degli anziani vicini di casa dei Woodhouse si suicida inspiegabilmente.

Da quel momento gli anziani condomini, la ficcanaso Minnie Castevet (Ruth Gordon) e il carismatico marito Roman (Sidney Blackmer) propongono la loro amicizia con molta insistenza alla giovane coppia. Nel mentre la vita privata dei Woodhouse procedono al meglio; il rivale di Gu si infortuna e l’attore riceve un promettente incarico e Rosemary invece rimane incinta. Il bambino però è stato concepito mentre la ragazza giaceva priva di sensi, la gravidanza per la donna è terribilmente insopportabile e dolorosa, tutti dolori che però vengono giudicati normali dal dottor Sapirstein (Ralph Bellamy), il medico consigliatogli dai due anziani coniugi.

Poco dopo la giovane May riceve una telefonata dall’amico Hutch che preoccupato le chiede velocemente di poterle parlare di qualcosa di molto importante e misterioso, ma poco prima di recarsi all’appuntamento, il vecchio amico cade in coma e in seguito muore. May riceverà in eredità da quest’ultimo un vecchio libro che le provocherà una terribile paranoia, scoprirà infatti che il nome di Roman Castevet è l’anagramma di Steven Marcato e che l’anziano vicino è il figlio del famoso satanista.

Rosemary

Separandosi sensibilmente dalla trama del romanzo da cui è tratto il soggetto, il regista Roman Polanski nel suo primo film girato in America, opta per lasciare nel dubbio il senso e gli eventi narrati nel film.

Non è ben chiaro quindi se la paranoia sempre più forte di Rosemary sia giustificata o se la giovane donna sia vittima di una fisiologica e delirante mania di persecuzione. Un esempio è la sequenza nella quale Rosemary grida durante il sonno “Questo non è un sogno, io non sto dormendo”, la protagonista sta effettivamente sognando, per cui la sua affermazione non può essere accolta dal pubblico come veritiera. Le sequenze oniriche che vediamo scorrere sullo schermo brulicano di simbolismi utilizzati per contrastare il linguaggio realista presente nella narrazione, che a sua volta entra in contrasto con il contenuto fantasioso della storia.

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In Rosemary’s Baby ogni inquadratura, ogni frase pronunciata, ogni dettaglio scenografico è atto a perfezionare la rappresentazione dei personaggi oltre ad inserire nuovi particolari utili al prosieguo della storia narrata; come ad esempio il gioco dello Scrabbel, attraverso il quale la protagonista scopre l’anagramma di Castevet. Anche l’uso dell’ambientazione è molto particolare, il ritrarre un bizzarro ma splendido caseggiato urbano nel centro città come un luogo ostile e pericoloso, non solo un antico palazzo vittoriano infestato da fantasmi e voci contenente un misterioso seminterrato con una storia oscura, ma anche passaggi nascosti che evocano una sorta di Castello di Dracula nel mezzo di New York City. Il regista quindi gioca non solo sulla sicurezza percepita all’interno della casa, ma anche su quella della modernità e del comfort della vita in appartamento e su quanto queste siano lontane da tali superstizioni anacronistiche, concetti già precedentemente esplorati da Polanski in Repulsion (1965), e poi ampliati in The Tenant (1976).

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Il film contiene anche molteplici metafore, la più importante delle quali è la manipolazione e la vittimizzazione delle donne negli anni ’60.

Il film presenta donne americane facilmente sfruttate o raggirate attraverso l’abuso di potere da parte di figure autoritarie maschili, incluso il marito, Guy, il quale senza troppi pensieri interpreta il presunto violentatore di Rosemary nel sonno, e che viene facilmente e insensatamente perdonato la mattina dopo. Inoltre i tentativi della protagonista di proteggere il suo bambino dalla congrega possono essere interpretati come una donna che prende nelle proprie mani le questioni riproduttive che sfidano un sistema oppressivo. In ultimo un altro tema presente in Rosemary’s Baby è l’aumento percepito della secolarizzazione e dell’irreligiosità dell’epoca, toccato per tutto il film, in primis con le parole di scherno verso il Papa da parte del vecchio Castevet, insieme ai sentimenti di colpa cattolica di Rosemary. Più tardi poi quest’ultima si imbatte nell’edizione dell’8 aprile 1966 del Time Magazine con l’inquietante titolo di copertina in rosso sangue “Dio è morto?”, frase che poi verrà affermata da Roman Castevet al culmine del film.

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L’ultimo importante fattore nella longevità di Rosemary’s Baby è senza ombra di dubbio l’immortale finale, l’intera sequenza è emblematica e potrebbe essere descritta come una fusione di tutto ciò che rende esemplare la pellicola di Polanski. Nello specifico la scena si basa su una provocatoria “anti-rivelazione” in cui la vista del bambino che tanto fa inorridire Rosemary è nascosta al pubblico, costringendo gli spettatori a creare nella propria mente la visione del bambino e gli occhi demoniaci del padre, il tutto accompagnato magistralmente dal solitario e inquietante assolo di corno. Il finale rimane irrisolto e il pubblico si trova ad affrontare l’inquietante verità, non solo la conclusione è ancora peggiore di quanto si possa immaginare, ma diventa persino più oscura.

La minaccia che incombeva su Rosemary non è solo del tutto reale, ma infine ha la meglio.

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