The Texas Chain Saw Massacre – La recensione

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« Il film che state per vedere è un resoconto della tragedia che è capitata a cinque giovani, in particolare a Sally Hardesty e a suo fratello invalido Franklin; il fatto che fossero giovani rende tutto molto più tragico, le loro giovani vite furono stroncate da eventi così assurdi e macabri che forse neanche loro avrebbero mai pensato di vivere… per loro una gita pomeridiana estiva si trasformò in un incubo e i fatti di quel giorno portarono alla scoperta di uno dei crimini più efferati della storia americana »

 

La dissolvenza nell’introduzione anticipa la scoperta di uno dei crimini più ripugnanti della storia americana; a confermarcelo è la sequenza successiva. Una lugubre musica elettronica riecheggia nell’oscurità, in sottofondo si avvertono colpi di mannaia e un respiro ansimante mentre una luce a intermittenza illumina parti di cadavere in decomposizione. Infine sentiamo da una radio la notizia della profanazione di un cimitero texano. La nota iniziale chiarifica che l’orrore è realmente avvenuto; e con l’impressione di guardare un reportage, ci immergiamo completamente nella vicenda di quattro amici che attraversano questi ostili territori. Sono Pamela, Kirk, Sally e il fratello Franklin.

Quando la benzina inizia a scarseggiare di comune accordo decidono di fermarsi nella ex casa dei nonni di Sally. Affianco abita una famiglia di macellai oramai disoccupati; i quali, per riuscire a sopravvivere, si dedicano al cannibalismo. Uno ad uno, i giovani amici cadono vittime degli psicopatici parenti di “Leatherface” (interpretato da Gunnar Hansen) e della sua motosega. L’unica a salvarsi è Sally Hardesty, che fuggirà via completamente inzuppata di sangue dalla testa ai piedi.

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La cucina del cannibalismo

Prodotto con l’irrisorio budget di 140 000 dollari, la seconda prova alla regia del cineasta statunitense fu presentata durante la ventottesima edizione del rinomato Festival di Cannes, shockando pubblico e critica specializzata. La violenza rappresentata e i temi crudi toccati dalla pellicola furono uno scandalo vero e proprio, obbligando la Gran Bretagna a bandire il film per ben 25 anni. In numerose nazioni, compreso il Bel Paese, la visione venne invece vietata ai minori di 18 anni. Un vero peccato, considerando le rivoluzioni attuate all’interno del genere, in seguito pienamente riconosciute. Nonostante tutto, però, il film incassò la sbalorditiva cifra di circa trenta milioni di dollari nel Nord America.

Il maestro Tobe Hooper crea un film sporco, viscerale e raccapricciante; un totem dell’immaginario horror che ha fatto scuola per i film a venire.

Una pellicola inquietante e malsana, che individua i punti angoscianti nello spettatore attraverso terribili atmosfere claustrofobiche – il tutto senza mostrare neanche un millilitro di sangue. Alla seconda visione meraviglia il fatto che, al contrario di molti altri film horror, le mutilazioni, così come le parti del corpo dilaniate, spesso vengono nascoste; non venendo inquadrate. Ciò nonostante il regista non solo riesce a rappresentare in maniera perfetta la violenza, ma la rende fisicamente tangibile.

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Le brutali immagini che si susseguono nello schermo per tutto il film non lasciano scampo a spiegazioni di natura psicologica o sociale, rendendo totale l’identificazione dello spettatore con le vittime. Alla sua uscita nelle sale americane la pellicola venne associata agli orrori della guerra del Vietnam, essendo una radicale rappresentazione dei traumi subiti dall’America; poiché basata su fatti reali. Proprio per questo motivo più che Leatherface, il mostro assassino della pellicola è, metaforicamente, la famiglia americana.

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Cena in famiglia

La tecnica iniziale del mockumentary si rivela uno dei privilegi più grandi dell’intera opera.

La fotografia Daniel Pearl, in simbiosi con il regista, innalza sensibilmente l’atmosfera malata, utilizzando una palette cromatica satura di colori “sporchi” e “grezzi”, contestualizzando il tutto. La colonna sonora, composta dallo stesso regista, è un’altra grande aggiunta all’immaginario filmico, con un susseguirsi di suoni malati e melodie stranianti.

Altro grande merito da riconoscere alla pellicola, oltre la creazione di un franchise partendo da una semplice opera indipendente, è l’aver plasmato una vera e propria icona del cinema horror: LeatherfaceGunnar Hansen plasmò infatti il personaggio per renderlo ancora più singolare, tra mugugni e movenze caratteristiche.

La trama diviene quasi un pretesto, per inscenare una paradossale e stravagante serie di eventi, affascinanti nella loro brutalità. Il ritmo si fa sempre più teso e forsennato, raggiungendo l’apice nelle battute finali; con un delirio psicologico così ben congegnato, e folle allo stesso tempo, da lasciar spazio anche ad un lieve tratto di umorismo a scopo satirico. Emozioni contrastanti, ma uniche nel loro genere. È giusto quindi sottolineare, ancora una volta, come sia elevata la resa del falso documentario. La cinepresa segue gli interpreti scena dopo scena, inquadrando ogni dettaglio come coltelli, cadaveri e lugubri camere, con un rigore quasi analitico.

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Nelle fatiscenti case troviamo stanze proibite, nelle quali nessuno può entrare.

Ed esattamente come nelle favole, la violazione del tabù conduce alla morte o causa torture che rievocano ricordi traumatici tipici dell’adolescenza (soprusi, derisioni). Le sequenze surreali seguono la struttura degli incubi, ad esempio quando Sally fugge inoltrandosi in una foresta buia, malgrado sia più veloce e agile, non riesce a sfuggire al suo inseguitore. Quest’ultima, pur incarnando il classico stereotipo della vittima in fuga dal proprio assassino, non è oggetto di desiderio sessuale. Le sue suppliche in lacrime provocano, anzi, incomprensioni o derisioni da parte degli psicopatici membri della famiglia.

Memorabile esordio sullo schermo per la macabra famiglia di macellai pazzi tra cui l’autostoppista, il nonno e lo sceriffo, il cui hobby è uccidere chiunque abbia la sfortuna di incontrarli. Il personaggio divenuto cult (ed anche il più inquietante dell’intera pellicola), rimane però Leatherface; complice il suo look raccapricciante: una macabra maschera di pelle umana e un grembiule da macellaio, e la sua motosega. In realtà il folle assassino indossa tre maschere diverse, a seconda delle occasioni, una per uccidere e altre due per stare in casa e cucinare.

I suoi travestimenti non rivelano però nessuna fantasia sessuale o il benché minimo movente per i suoi efferati omicidi. Da un lato si trasforma nella proiezione di paure inconsce, dall’altro si offre all’identificazione. Il film infatti indica diversi parallelismi tra l’assassino e Franklin, l’emarginato del gruppo di amici.

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Un nuovo strumento di morte; la motosega.

Il visionario Hooper con pochi mezzi crea un capolavoro che ha influenzato il genere horror come pochi altri, appiccando il manifesto principale del suo cinema, destinato purtroppo a svanire nel giro di pochi film, a differenza dell’immagine iconica di Leatherface nell’atto di brandire la sua motosega. La vena folle che attraversa l’intera durata del film, riesce a divenire ammaliante nella sua natura occulta. Il sipario si chiude su una delle pagine di cronaca più buie e atipiche del cinema di genere, ma si apre una frontiera per i successori, che ben hanno saputo seguire le gesta del loro “padre genetico”. E’ il trionfo dell’orrore visivo, dove le urla di Sally Hardesty si impongono come protagoniste assolute, pronte a scolpirsi nelle memorie dello spettatore.

Scritto in collaborazione con, Cristiano Pepe.