Good Time – La recensione

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Arrivato il 26 ottobre in (sole) 9 sale su tutta la penisola italiana, Good Time è il nuovo film diretto dai Safdie Brothers, un cognome che sta iniziando a farsi conoscere nel panorama del cinema indipendente.

Presentato nella sezione “In concorso” del Festival del cinema di Cannes durante l’edizione di quest’anno, Good Time vanta un paio di nomi altisonanti nel cast attoriale (al contrario dei loro precedenti lavori); Robert Pattinson, Jennifer Jason Leigh e Barkhad Abdi. Mentre al primo è riservato il ruolo del protagonista, la presenza degli ultimi due è relegata a pochi minuti.

L’incipit che scatenerà tutte le disavventure che avvengono nel corso del film non è nulla di particolarmente innovativo o ricercato. Connie (Robert Pattinson) e Nick (Ben Safdie) Nikas sono due fratelli del Queens, che tentano di rapinare una banca per poter abbandonare la loro insoddisfacente vita. Tuttavia, durante la fuga, Nick, mentalmente ritardato, viene arrestato. Sarà compito di Connie racimolare la cifra in denaro necessaria per pagare la cauzione del fratello, in una continua fuga dalla polizia nel bel mezzo dei bassifondi newyorkesi.

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La resurrezione della Nuova Hollywood

Risulta veramente complesso catalogare quest’ultima opera dei fratelli Safdie. Anche perché, già da una primissima occhiata, ci si può accorgere che è un prodotto fuori tempo massimo (esattamente come il suo protagonista, in fuga dalle conseguenze delle sue scelte). Questa inadeguatezza di Good Time, in un mercato cinematografico fagocitante e complesso come quello attuale, non rappresenta però una debolezza, ma diventa l’essenza stessa del suddetto film.

Si assiste quindi ad un ripresa di meccanismi e schemi narrativi tipici dell’età della Nuova Hollywood. Il personaggio principale è rappresentato da un uomo qualunque, mostratoci dai registi mentre sguazza in una realtà a lui famigliare, ma inusuale al pubblico che la osserva. Il protagonista diviene quindi una lente, mediante la quale ogni spettatore riesce ad addentrarsi nei meandri di questo microcosmo; un piccolo universo al quale Connie Nikas è avvezzo.

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Robert Pattinson: un talento in continua crescita

I fratelli Safdie, ai quali è stata concessa la piena libertà creativa, si divertono a trasformare Pattinson nel loro personale burattino; invischiandolo in situazioni sempre più scomode e non fornendogli mai una rapida e indolore via di uscita. Sempre costretto a vagare in questa sottospecie di Inferno in terra e tra i suoi loschi abitanti.

La performance di Pattinson porta dei risultati impressionanti. L’attore inglese riesce a eliminare definitivamente la sua imbalsamata monoespressività che lo ha caratterizzato in passato. Facendosi guidare completamente dai due registi, riesce a dedicare anima e, in particolar modo, corpo alla sua interpretazione. Un ulteriore passo verso la raffinatezza che Pattinson sembra aver sviluppato negli ultimi anni; come si può evincere dalle sue recenti collaborazioni con Cronenberg, Herzog e Gray.

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Una commistione tra stilemi passati e moderni

Si compierebbe un grave errore, però, se si giudicasse Good Time come un mero omaggio ad una tipologia di cinema, completamente sconnessa dalla realtà industriale, appartenente ormai al passato. I Safdie si occupano anche di dipingere questo “girone infernale” da loro trasposto sul grande schermo, con un loro personale senso stilistico.  Uno sguardo che incarna proprio l’impatto della modernità su un’idea di settima arte ormai (purtroppo) defunta; riesumata per l’occasione.

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Il lavoro dei due fratelli dietro la cabina di regia non si limita ad essere però un esercizio di stile. Film spesso destinati a lasciare lo spettatore meravigliato al momento della visione, ma indifferente sulla lunga durata. L’estetica dei Safdie si dimostra variegata e in grado di aderire perfettamente alla materia narrata. Si passa quindi da un’estetica basata completamente sulle luci a neon, che possono rivelarsi fredde e apatiche, quanto calde e avvolgenti, per poi raggiungere la antiquata cupezza del noir classico.

Anche un continuo cambio di tonalità, ravvisabile per tutta la durata del film, costituisce una caratteristica importante della cifra stilistica dei registi; eternamente in bilico tra elogio del passato e, al tempo stesso, della contemporaneità. In Good Time si intervallano quindi momenti di elevatissimo pathos – senza mai scendere nella boriosità del melodramma – con attimi di estrema leggerezza. Una naturalezza che scaturisce in un tipo di comicità assolutamente involontario e per niente costruito, ma dipendente unicamente dalle dinamiche del contesto nel quale la scena si svolge.

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L’invito è quello di correre nel cinema più vicino, uno tra i pochissimi nei quali è arrivato questo gioiello. Complice una distribuzione scandalosa, che fin troppo spesso penalizza piccole produzione di elevatissima qualità. Good Time rientra sicuramente in questa categoria; rappresentante di un cinema ormai defunto, al quale viene aggiunta una patina di modernità che lo rende ancor più intrigante. L’operazione è riuscita, e si inserisce di prepotenza tra i migliori titoli usciti in questo 2017.

Articolo a cura di Davide Colli