Funny Games – Il gioco sadico di Michael Haneke

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“Vogliamo scommettere che voi in… diciamo dodici ore, sarete tutti e tre morti?”

Cosa pensereste se vi dicessimo che esiste un film (due in realtà) studiato a tavolino per beffare e far andare su tutte le furie un’alta percentuale di pubblico in ogni modo possibile e immaginabile? Se avete visto Funny Games di Michael Haneke, ci direte che è tutto vero. Trattasi probabilmente di uno degli esperimenti cinematografici più singolari, rischiosi e controversi mai tentati.

Ma è innanzitutto doveroso fare una premessa fondamentale. Come molti sanno, esistono due versioni di questo film: la prima del 1997, in lingua tedesca, e la seconda del 2007 rigirata shot-for-shot in lingua inglese dallo stesso Haneke. È possibile parlare di una sola versione senza menzionare l’altra? No. Infatti ne parleremo come se si trattasse di un’unica opera riferendoci ad essa come “il film”, anziché “i film”, data l’enorme preponderanza dei loro punti in comune. Delle differenze sostanziali tra le due versioni ce ne occuperemo più tardi.

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La famiglia nell’originale: da sinistra Susanne Lothar, Stefan Clapczynski e Ulrich Mühe.

Una tranquilla famigliola composta da padre, madre e figlio, va in vacanza nella loro casa sul lago. Letteralmente dal nulla appaiono due giovani vestiti di bianco, che, senza uno straccio di motivo e con inumana insensibilità, cominciano a torturare fisicamente e psicologicamente la famiglia. Superando abbondantemente la soglia del sadismo. Fin qui sembra l’inizio di un comune slasher, vero? Sbagliato.

Ciò che rende il film assolutamente unico nel suo genere è che i due aguzzini sono totalmente consapevoli di trovarsi in un’opera di finzione.

Il loro unico obiettivo altro non è se non quello di divertirsi come dei pazzi; consci di avere a disposizione una canonica ora e mezza per poter inscenare tutti i passaggi di un tradizionale thriller claustrofobico. A comandare il gioco, a dire il vero, è solo uno dei due: lo snello e strafottente Paul. Mentre Peter, un ingenuo e impacciato ragazzone in leggero sovrappeso, si attiene perlopiù alle direttive del primo, non palesando mai il suo diretto coinvolgimento.

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La famiglia nel remake: da sinistra Naomi Watts, Devon Gearhart e Tim Roth.

Ma questa caratteristica è circoscritta unicamente a loro due. La sventurata famiglia, al contrario, è totalmente all’oscuro del sadico gioco metacinematografico in cui è coinvolta suo malgrado. Le sue dinamiche non differiscono infatti in alcun modo da quelle riscontrabili in una qualsiasi pellicola di questo genere. Perciò le reazioni che avrà per tutto il film alle amenità dei carnefici, non saranno dissimili da quelle che lo spaesato spettatore potrà percepire come tragicamente verosimili.

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Gli aguzzini nell’originale: da sinistra Arno Frisch e Frank Giering.

Ed è qui che il film abbraccia la sua fondamentale peculiarità narrativa: i tipi di coinvolgimento emotivo dei due distinti comparti remano in direzioni divergenti tra loro. Lo spettatore, affidandosi unicamente al proprio libero arbitrio, potrà decidere se farsi complice dei due perversi bontemponi, assistendo con partecipazione al loro singolare gioco; oppure se soffrire legittimamente per la famiglia, che vedrà venir ferocemente distrutto il suo tranquillo equilibrio.

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Gli aguzzini nel remake: da sinistra Brady Cobert e Michael Pitt.

Questo gioco è nitido e riscontrabile già ad una prima visione?

Lo è molto raramente. Nella stragrande maggioranza dei casi, le sensazioni preponderanti che pervaderanno lo spettatore alla prima visione saranno rabbia, frustrazione e confusione emotiva. Questo perché ciò che il film gli richiede va contro le leggi basilari della narrativa. Ovvero disinteressarsi delle cause dei protagonisti, coi quali il film nel suo incipit non manca di creare empatia, e parteggiare per coloro che una trama classica identifica come antagonisti.

E’ un esperimento che sovverte ogni aspettativa e convenzione del genere; stimolando spunti di riflessione costruttiva, ma sacrificando inevitabilmente un’esperienza cinematografica appagante. Lo spettatore, a maggior ragione se in possesso di cognizione di causa, terminata la visione sarà tentato di dire “Ok Haneke, missione compiuta: il film è irritante”. Mentre invece ad una seconda visione (o volendo alla visione dell’altra versione), svanita la suspense riguardante la linea narrativa principale, sarà molto più facile individuare ed apprezzare i veri intenti del regista.

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Il metacinema presente nella pellicola non è invadente.

I due pseudo-antagonisti, come detto sopra, hanno coscienza della loro natura, ma ciò non viene immediatamente palesato. La loro peculiarità si manifesta dapprima con un’impostazione comportamentale decisamente anti-cinematografica, lasciando automaticamente  intuire allo spettatore che “qualcosa non quadra”. Col progredire del film, Paul romperà più volte la quarta parete. Dapprima cautamente, poi sempre più spudoratamente, ma mai se non per fugaci e dissacranti interazioni con lo spettatore; tutte volte alla ricerca della sua complicità, o per domandargli quali siano le sue aspettative per il proseguimento. Ma più di tutto, la componente metacinematografica è racchiusa in numerosi scambi di battute, all’apparenza criptici, tra gli antagonisti. I dialoghi disseminati nella pellicola celano al loro interno  sardoniche considerazioni sugli schemi canonici del thriller. Schemi che esasperano spesso l’artificio nella consecuzione degli eventi, al fine di mantenere alto il coinvolgimento dello spettatore.

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Oltre a possedere la visione d’insieme, i due antagonisti sono invincibili.

Questo rappresenta probabilmente la maggior sfida e potenziale fonte di frustrazione del film. La famosa scena del telecomando ne è l’emblema; il momento esatto in cui lo spettatore che sceglie di sperare per le sorti della famiglia si lascerà andare ad un tanto agognato impeto di gioia, poco prima di cedere il passo ad un accorato disappunto.

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Ma in cosa differiscono essenzialmente le due versioni?

L’originale è interpretato da attori tedeschi e austriaci, ovviamente poco conosciuti al di fuori del Paese di produzione; mentre nel remake troviamo attori anglofoni del calibro di Naomi Watts, Tim Roth Michael Pitt. Il coinvolgimento emotivo da parte della famiglia è probabilmente più efficace nel remake, dato il diverso tipo di apporto fornito dagli attori. In particolar modo da Tim Roth, forte di una recitazione non verbale, nei suoi silenti primi piani, decisamente più potente della controparte Ulrich Mühe. Tuttavia, seppur qualitativamente inferiore, la recitazione degli attori dell’originale resta indubbiamente valida, specialmente durante le scene riguardanti le loro crisi emotive recitate con sconvolgente realismo.

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Il personaggio di Paul esercita una maggiore “attrattiva” nel remake. Interpretato da Michael Pitt, egli aumenta le possibilità che parte del pubblico possa instaurare con lui un legame di perversa empatia. Cosa che risulterà ardua all’originale interpretato da Arno Frisch, che con la sua prova volutamente odiosa fino all’osso riesce a generare nello spettatore autentici istinti omicidi nei suoi confronti. La rappresentazione di Peter (chiamato continuamente “Ciccia” da Paul) risulta invece più fisicamente centrata nell’originale, dove è interpretato dal paffuto Frank Giering; dato che il Brady Colbert del remake non ha propriamente l’aspetto del “ragazzone”.

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Infine, la maggior cura estetica del remake aiuta forse a calarsi meglio nel meccanismo fuori dagli schemi della pellicola, rendendo il gioco più facilmente identificabile e godibile.  La messa in scena più rozza che caratterizza invece l’originale può favorire la preponderanza della componente thriller, rischiando che lo spettatore si approcci al film come ad un’opera tradizionale; non comprendendo immediatamente i suoi intenti. Ma tutto sommato, entrambe le versioni sono valide ed apprezzabili in modi differenti.

La colonna sonora è rappresentata quasi esclusivamente da Bonehead dei Naked City, pezzo hardcore particolarmente assordante proposto extradiegeticamente in apertura e in chiusura, e diegeticamente in una scena del film. Scelto probabilmente per amplificare la natura beffarda della pellicola.

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Con Funny Games vi approccerete probabilmente ad una delle pellicole più bizzarre della vostra vita, che metterà a dura prova la vostra pazienza e la vostra conoscenza dei generi cinematografici. E voi, per chi sceglierete di parteggiare?

CONSIGLIATO IN ITALIANO?

. In entrambi i casi, il doppiaggio è in generale abbastanza ben curato e le voci aderenti ai personaggi. Tuttavia, data l’importante componente recitativa del film, la visione in lingua originale per poter meglio cogliere le sfumature dei personaggi non è da disdegnare. Specialmente per quanto riguarda l’originale, dato che la presenza di voci familiari su attori semisconosciuti può sortire un effetto straniante. Inoltre, essendo i film girati in due lingue diverse, la visione in originale può meglio mettere in risalto le rispettive identità nazionali.

Curiosità: nell’originale, Paul e Peter si chiamano spesso a vicenda “Tom e Jerry”. Nel remake invece i nomignoli vengono cambiati in “Beavis e Butthead”, ma nel doppiaggio italiano sono stati comunque mantenuti “Tom e Jerry”, dato che gli altri due personaggi in Italia sono poco conosciuti.