The Beatles: Get Back – Recensione della serie di Peter Jackson [VIDEO]

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Credits: Disney+
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Peter Jackson crea un incredibile documento sulla fine dei Beatles, ma anche sulla loro grandezza

Per realizzare The Beatles: Get Back, Peter Jackson e i suoi collaboratori hanno messo le mani in mezzo a ore e ore di girato inedito risalenti al 1969. Il materiale, realizzato dal regista Michael Lindsay-Hogg per il documentario Let It Be (poi uscito nel 1970), era rimasto nei cassetti fino ad oggi.

Maneggiandolo, il regista de Il Signore degli Anelli è riuscito a compiere un miracolo: una serie di tre episodi (tre film, di fatto) che, in ore e ore di ricostruzione, raccontano esattamente la storia della fine dei Beatles, ma anche del loro momento d’oro. Parliamo del rooftop concert, il famoso concerto sul tetto che fu la loro ultima esibizione ufficiale prima dello scioglimento.

Jackson riesce a selezionare saggiamente il materiale e a ricomporlo abilmente in uno storyboard che rende tutta la tensione di un arco narrativo; e che, quindi, trascina lo spettatore fino alla fine. Vero, per apprezzare appieno questa mini-serie bisogna essere due cose: uno, super-fan dei Beatles; due, musicisti.

Ma sarà facile per chiunque farsi coinvolgere dai momenti clou rappresentati: un documentario su un documentario, che riporta però scene talmente eccezionali che sembrano essere state sceneggiate apposta. E invece no, è tutto vero. Quello che vediamo è accaduto realmente e comunica con precisione storica senza precedenti l’importanza e la grandiosità di ciò che i quattro facevano con la loro musica.

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Tra le scene che i fan fedelissimi troveranno pazzesche: il momento in cui Paul McCartney intuisce che la band è davvero alla fine, e si trattiene a stento dalle lacrime; quando Ringo Starr mostra la sua idea per Octopus’s Garden, uno degli unici due brani da lui scritti per la band; l’esatto istante in cui sempre Paul inventa la canzone Get Back, suonandola all’improvviso fuori dal nulla.

Un documentario su un documentario per raccontare l’importanza ma anche la fragilità dei Fab Four

E poi: le incredibili jam session nelle quali i quattro musicisti si perdono, coinvogendo anche in varia misura tutti i presenti in un clima di libertà espressiva oggi inimmaginabile; quando John e Paul deridono la composizione in valzer I Me Mine di George Harrison; e il momento in cui quest’ultimo lascia il gruppo per diversi giorni, portando ad una fase di tensione indescrivibile.

Per gli appassionatissimi, ci sono molti altri accenti da apprezzare. Il modo unico in cui i quattro dialogano con i loro strumenti e le loro idee, discutendo ma anche ispirandosi a vicenda, è un esempio. Un altro sta nei vari segnali che preludono allo scioglimento. L’assenza di una figura che li guidi (Brian Epstein, morto due anni prima) e l’indecisione e l’insicurezza nelle quali operano ne tradiscono diversi.

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Un altro segnale è la presenza fissa di Yoko Ono: “Tra cinquant’anni scherzeranno, diranno: ‘Si sono sciolti perché lei stava sempre seduta lì'”, dice Paul McCartney. E fa specie pensare che effettivamente, cinquantadue anni dopo, le cose stanno proprio così. Per quanto, certo, il documentario stesso rivela come i problemi siano tanti ed emergano a ogni piè sospinto: impossibile incolpare solo Yoko.

In conclusione, Peter Jackson riesce a rendere appassionante un percorso altrimenti confuso, conferendo una linearità precisa ad un insieme di immagini e suoni che di per loro non ne avevano alcuna. In questo modo vediamo i Beatles un po’ come i quattro hobbit, diretti verso una meta ma disperati di riuscire.

Meta che viene raggiunta con il celebre concerto che ha segnato la storia della musica e del quale ci vengono forniti dettagli incredibili, come le parole esatte dei poliziotti intervenuti per interrompere il tutto. La storia finisce con ulteriori prove, ma la fine reale è già arrivata, anche se i Beatles ancora non lo sanno. Noi lo sappiamo, ma è solo una ragione in più per amare alla follia questa serie incredibile.