American Factory | Un profondo e lento incidente interculturale

I posti di lavoro tanto promessi agli americani non sono tornati magicamente, ma grazie a un capitalismo che fa paura.

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American Factory, racconta le difficoltà di un muro comunicativo e di un pericoloso capitalismo che avanza sempre più prepotentemente.

Vincitore del premio Oscar come miglior documentario e primo progetto per la Higher Ground Productions degli Obama, American Factory sembra iniziare come un esperimento sociale per poi diventare una testimonianza dei caratteri di due identità contrapposte. Il terreno comune rimane uno, quello delle grandi aziende globali, generate da un capitalismo sfrenato. Una sete di denaro e potere mascherata dalle frasi dal miliardario Cao Dewang secondo il quale “La cosa più importante non è quanti soldi guadagniamo. Ciò che è importante sono le opinioni degli americani nei confronti della Cina e del suo popolo.”, il tutto detto mentre si trova sul suo Jet privato. Il documentario dei registi Steven Bognar e Julia Reichert è coinvolgente, sconfortante e disperatamente triste. American Factory è il titolo perfetto di una realtà dove, come avrete intuito, non si parla di una fabbrica totalmente americana.

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Una lavoratrice della Fuyao si concede una breve pausa. Credits: Netflix

Nel 2016, Cao Dewang ha aperto una divisione della Fuyao, la sua azienda globale che produce parabrezza, in una vecchia fabbrica della General Motors in Ohio. Ma non ha portato solo i suoi soldi, perché molti dei lavoratori della fabbrica sono cinesi. Grazie al loro apporto la fabbrica e il nome dell’azienda crescono, ma i lavoratori americani non sembrano stare al passo e hanno “dita troppo grasse” come noteranno i manager asiatici. Inizia così una cronaca emotivamente e politicamente incisiva del capitalismo, della propaganda, dei valori contrastanti e dei diritti del lavoro. Perché se le tasche di Cao si gonfiano, l’ottimismo dei dipendenti si sgonfia cedendo il passo al disagio, mentre i vetri si rompono e gli animi si sfilacciano. Sia la dirigenza cinese che quella americana si lamentano della produzione e soprattutto dei lavoratori americani. Ci si aspettava aumentassero la produttività a tutti i costi, lavorando anche 6 o 7 giorni a settimana e dimenticando le proteste per dei “lussi americani”, come le pause pranzo e le precauzioni di sicurezza.

Ma American Factory riesce a trattare questi temi politici senza alcun verdetto morale su dei papabili “cattivi”, anche se in alcuni casi il montaggio ci porta a fare i conti con dei giudizi personali su quanto stia accadendo e chi considerare davvero meschino. Basti pensare al momento politico in cui questo film esce negli USA. Donald Trump è stato elogiato dalla destra per aver fatto accordi e creato posti di lavoro, il problema è di cosa si sta parlando. Un’americana afferma che prima che la fabbrica della General Motors chiudesse, guadagnava più di 29 dollari l’ora. Ora alla Fuyao guadagna 12,84 dollari. Addio classe media, e benvenuto sfruttamento, con tanti ringraziamenti al presidente e al suo amore per “China… China… China“. Collegando tutti i punti sociopolitici in modo intelligente, il documentario ci mostra come siano questi gli accordi e i posti di lavoro di cui l’America sta parlando. I lavoratori americani saranno sorridenti se lavoreranno a basso costo, senza lamentarsi.

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I lavoratori cinesi alla Fuyao Glass America a lezione di cultura americana. Credits: Netflix

Ma come vive l’altra metà dei lavoratori della Fuyao?

La risposta testimonia tutta l’abilità registica di Bognar e Reichert, arrivando nel momento perfetto in cui il film lo richiede. Si parte così in viaggio con un gruppo di dipendenti verso la fabbrica in Cina, proprio quando siamo pronti a vedere come vive l’altra metà. Qui la cultura del lavoro è tutto: lavorare è vivere, vivere è lavorare. E così le giornate con turni da 12 ore vengono allietate cantando l’inno aziendale, dedicato ad un “mondo trasparente”. Ovviamente trasparente come i loro vetri perché la trasparenza, in questa azienda dall’atmosfera totalitaria, non esiste. Gli americani invitati sono increduli nello scoprire che chi vedono esibirsi sul palco alla festa di capodanno siano impiegati dell’azienda. Li osservano come fossero automi pronti ad esibirsi a comando e senza pecche, in una visione meravigliosamente tragica. Qui avviene il vero successo del documentario. La visione si sdoppia in un unico momento, per mostrare un unico sguardo su tutto questo scontro sociopolitico ed economico. Il trionfo dei registi è quello di farci vedere entrambi i mondi contemporaneamente.

Uno scontro su tutti i fronti: collettività contro l’individualità e l’orgoglio del successo contro l’arrivare alla fine del mese. Ma ad un operaio non sfugge che siamo noi quelli che si trovano nel mezzo, rimarcando chi siano le vere vittime in tutto questo. Una visione simile a quella dei colleghi asiatici che hanno condiviso il film: “Apprezzo la diligenza e l’organizzazione dei nostri lavoratori cinesi, ma d’altra parte provo anche empatia per i lavoratori americani che chiedono più diritti e protezione“, ha detto il 33enne Zhang Ming, dopo aver trasmesso il filmato in streaming su un sito cinese, dove è stato visto più di 700.000 volte.

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Non c’è giudizio. Non c’è una moralità giusta o sbagliata evidenziata dai registi. Il film però suscita qualcosa a livello personale.

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I dipendenti della Fuyao mentre eseguono una coreografia con al centro i parabrezza dell’azienda. Credits: Netflix

I due registi filmano tutti i momenti di vita lavorativa con lo stile della mosca sul muro, risultando quasi sempre invisibili e senza dare giudizi. Ma questo non ci vieta una riflessione personale. Magari pensando come questo capitalismo viene mostrato nella sua veste più oscura. Assume le sembianze di uno schiavismo sfarzoso, fatto di slogan melodiosi e balletti in costume, sempre incentrati verso un unico grande e indiscutibile obiettivo: lanciare l’azienda e il suo nome nella stratosfera, dimostrando cosa i lavoratori cinesi possano raggiungere. E così si memorizzano gli slogan, si balla come si fosse coreografati da Fritz Lang in Metropolis, e si canta la canzone dell’azienda dedicata alla nitidezza splendente dei loro vetri. E mentre queste meraviglie cristalline si muovono in un balletto fatto di luci fluorescenti, ci si dimentica di sé. Ci si abitua al fatto che vedere i propri figli una volta all’anno in fondo “non è così male“, che 12 ore di turno in una fabbrica siano la normalità e che due giorni liberi al mese siano un dono reso possibile solo dalla magnanimità del nostro leader.

L’azienda non è più solo un simbolo del loro lavoro, ma una macchina infernale a cui dedicare la loro esistenza. Sono i superiori a vendere l’idea di una grande famiglia, con i membri tutti in fila come degli automi militarizzati, pronti ad eseguire ogni compito pur di far arrivare l’azienda al prossimo gradino. Uno step alla volta. Pronti… via, ballate, cantate per la lucentezza dei nostri vetri, lavorate più veloci, senza sosta! Fino a farli sorridere e gioire per il loro variopinto sfruttamento .

Quello che poteva essere il racconto di un futuro per le aziende internazionali, American Factory lo trasforma in un incubo attuale e realista, preludio di una nuova era di automazione. “Agli asini piace essere accarezzati nella direzione in cui cresce il pelo” dice il presidente Dewang. Lo annuncia con sicurezza, sapendo che bisognerà accarezzare questi asini lavoratori finché non saranno sostituiti da macchine più efficienti di qualsiasi umano. È questo che ci regala il film di Bognar e Reichert, uno sguardo verso un angosciante futuro attraverso un parabrezza cristallino.

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