Fabio Guaglione e Fabio Resinaro presentano insieme al regista Jacopo Rondinelli il nuovo lavoro Ride. Found footage, sport estremi e GoPro: “Abbiamo creato un mondo”
La nascita di un Nuovo Cinema Italiano è un po’ la grande ossessione di giornalisti ed addetti ai lavori nostrani. Periodicamente, a cicli di otto-dieci anni l’una dall’altra, piccole new wave di pellicole dirompenti e innovative arrivano a sconvolgere il panorama cinematografico tricolore, lasciando immaginare i più luminosi sviluppi futuribili e un risveglio del tanto compianto “cinema di genere”. Innovazione, originalità, incassi. È il caso di Ride. Ma il più delle volte, in realtà, la spinta si esaurisce in capo a sei mesi. Gli acclamatissimi prodotti rimangono casi isolati, l’interesse del pubblico scema, e si ritorna per così dire nei ranghi (film di comici, drammi borghesi e uscite tecniche).
Un paio di anni fa il tormentone è ripartito: una sequenza di opere prime clamorose, instant-cult di grande successo e freschezza, aveva dato uno scossone non indifferente. Improvvisamente sono finiti al centro della mappa una serie di nomi mai sentiti prima. I vari Mainetti, Rovere, Sibilia, sono presto diventati i supereroi a cui affidare l’impresa, sempre impossibile, di salvare da soli un’industria in perenne crisi. Intorno a questi ed altri autori, oggi più che mai c’è interesse, buzz, addirittura aspettative. Forse è la volta buona.
Ora è il momento delle conferme e mentre la maggior parte delle opere seconde è ancora in lavorazione, a far ripartire le danze ci penseranno, indirettamente, i due nomi forse più interessanti del mazzo (soprattutto a livello produttivo). Il film in questione si chiama Ride, qui la nostra recensione, è stato presentato negli scorsi giorni a Roma e Milano ed è un progetto che porta con sé una serie di considerazioni fondamentali, dalle tematiche affrontate alle tecniche di lavorazione fino alle modalità di distribuzione. Ride, 200 copie per Lucky Red dal 6 settembre, è infatti sì l’opera prima dell’operatore e videomaker Jacopo Rondinelli, ma rappresenta soprattutto il secondo tassello della particolarissima operazione dei registi e produttori Fabio Guaglione e Fabio Resinaro.
Portati alla ribalta proprio nel 2016 grazie a Mine(oggetto completamente alieno per il mercato italiano: piccolo film di genere low-budget, con attori americani e confezione volutamente internazionale), proseguono in qualità di autori, produttori e “supervisori artistici” quello che a questo punto è un personale, ambizioso progetto di svecchiamento rivolto ad un’industria intera. Un progetto allargato, che coinvolge creativi, autori, effettisti e marchi da mezzo mondo, con un occhio il più internazionale e contemporaneo possibile. Ne hanno parlato pubblicamente in occasione della presentazione del film.
“Il cinema di genere italiano è qualcosa a cui tutti teniamo molto”, ha spiegato Fabio Resinaro in conferenza stampa. I due, milanesi, rispondono insieme alle domande, e mostrano a più riprese una totale comunione di intenti e poetica. “Per l’operazione Ride abbiamo deciso di chiamare a dirigere Jacopo Rondinelli, che conoscevamo da tempo, con l’idea dichiarata di formare e lanciare registi nuovi. Nuovi autori capaci di parlare ad un nuovo pubblico, che sia magari interessato a ricevere un nuovo tipo di prodotto”.
La concezione di un modo di fare cinema commerciale all’americana è un po’ il cardine di tutta la factory Guaglione-Resinaro. Produrre e girare film di caratura internazionale, rigorosamente di genere, con marketing pensato per i multisala ma abbastanza ambiziosi da tentare ad ogni ripresa qualcosa di nuovo. E, naturalmente, espandibili e crossmediali, com’è il cinema d’intrattenimento del 2018: “Con Ride abbiamo voluto creare un mondo, dare vita ad un’estetica sonora e visiva perfettamente riconoscibile. Un universo in cui lo spettatore abbia piacere a passare novanta minuti, e magari tornare in un’altra occasione. Abbiamo lavorato molto in questo senso, e speriamo che al pubblico questo arrivi”.
La ricerca di questo nuovo pubblico non può dunque che passare attraverso una narrazione perfettamente radicata nell’oggi, come quella di Ride.
Storia di due biker e appassionati di sport estremi (Lorenzo Richelmy e Ludovic Hughes), che tirano a campare con un canale Youtube di medio livello. Una serie di circostanze li costringerà a partecipare ad una corsa segreta in downhill per un pubblico anonimo e pagante, finanziata dalla misteriosa Black Babylon. Niente domande, macchinette GoPro attaccate al casco e alle moto per riprendere ogni momento della gara, e via per un percorso isolato disperso tra le Alpi. Tutto, con la particolarità di essere appunto girato dal primo all’ultimo minuto in telecamere GoPro, espediente giustificato da una saggia scelta di approccio in found footage.
Svelare di più è spoiler: come già Mine, anche Ride vive soprattutto dei suoi continui scarti di tono, stile, persino genere. Ad ogni svolta il film assume nuovi contorni, rilancia, apre nuovi varchi in un tripudio di riferimenti a metà della cultura pop degli ultimi quarant’anni. “Ma rispetto ad un Ready Player One, i nostri però sono anche riferimenti contemporanei”, spiega Guaglione in tal senso. “roba degli ultimi anni, come appunto la disciplina del downhill. Ci sono un po’ di anni ’80, che ormai è d’obbligo, ma è una questione più che altro anagrafica, essendo noi nati in quel periodo lì. E’ anche un film sulla nostra generazione, sul suo rapporto con il digitale, e la dipendenza da quella cultura dell’apparire. Volevamo accontentare diversi palati, e visto che ognuno di noi arriva da realtà diverse abbiamo tutti aggiunto il nostro.”
Ride sarà principalmente venduto come “il film girato tutto in GoPro”. Ovviamente c’è di più, ma come spesso accade, in questo tipo di pellicole il selling point basta di per sé a fare il film. Il difficile in un progetto come Ride è la gestione narrativa dello spunto (“Duel su due ruote”, ripetuto spesso dal co-sceneggiatore Marco Sani) e l’adattamento dello stesso alla folle tecnica di ripresa usata:
“Bisognava giustificare la presenza di queste GoPro come punti di vista delle inquadrature. Serviva una motivazione, e abbiamo pensato all’escamotage del reality. In Hardcore! (Hardocre Henry, di Ilya Naishuller, 2016) avevano fatto una cosa simile, ma lì si trattava solo di seguire la soggettiva del protagonista. Qui abbiamo un complesso gioco sui generi che volevamo portare avanti nella storia. Ride è partito in maniera semplice, un film sportivo sui biker, e si è trasformato in un’orgia di fantasia. Durante la lavorazione continuavamo a farci domande e a inventarci soluzioni. E così Ride si è espanso, diventando il film che si vede ora.”
Ride basterebbe ad aprire un discorso a parte. Dall’entusiasmo di Richelmy nell’aver sperimentato un nuovo tipo di recitazione (“avevo le camere montate addosso, potevo andare per i boschi e fare quello che volevo: era tutto inquadrato”), all’angoscia di Rondinelli e i due co-autori: “C’erano venti telecamere per scena, ognuna girata intera, senza stacchi. Alla fine ci siamo ritrovati con nove mesi di girato, tra take, scarti, angolazioni diverse… Abbiamo dovuto inventarci uno schema inquadrature a cui fare riferimento e su cui strutturare le scene, storyboard, disegni…”
Il meglio è necessariamente venuto con la post-produzione, praticamente una nuova lavorazione a sé: “E’ stato un processo infinito. Le componenti grafiche da gestire sono complesse: quasi novecento inquadrature sono state trattate in digitale, lavorando su glitch, sgranamenti, fuori fuoco, tutti trucchi che ci rimandano ancora all’8-Bit e al mondo del gaming (inevitabile punto di riferimento più volte citato, ndr). Volevamo dare al film una coolness che lo rendesse indipendente dall’esperimento GoPro in sé per sé, e l’escamotage del found footage ci ha permesso di lavorare proprio su questo. L’immagine si frantuma, si sgrana, subisce varazioni anche cromatiche al limite della psichedelia. Sopratutto per il climax ci siamo mossi verso un’estetica buia, cupa, con continui glitch colorati a sporcare l’immagine. Il risultato è visivo ed estetico prima di tutto”.
Alla fine, Ride si distingue come un progetto confuso, sperimentale, ma anche pensato e strutturato nei dettagli con una dedizione hollywoodiana. Parlando di un approccio americano alla produzione si allude anche a questo: piccoli film di genere pianificati in ottica marketing come fossero lavori Marvel. E nessun lavoro Marvel si esaurisce sui titoli di coda.
“Ride si rivolge ad un pubblico disposto ad approfondire un mondo che lo interessa”, viene spiegato ancora. “Magari comprando un libro o un fumetto che amplii il discorso sulla Black Babylon ed i suoi adepti. Ci stiamo volontariamente muovendo in quella direzione: abbiamo distribuito lattine come quelle del film, diffuso loghi, aperto pagine facebook… Un tentativo di campagna virale volta a creare curiosità. La gente l’ha presa bene. Il film ha molti spazi vuoti, domande da approfondire. Vogliamo che si facciano teorie, che la gente esca con la voglia di averne ancora. Non sembrerà cinema italiano, ma sarebbe bello se per una volta fosse il cinema italiano ad avvicinarsi a questo modo di fare film.”