Gus Van Sant - L'indie americano alla ribalta - Van Sant è uno degli artisti indipendenti più famosi nel mondo. Ecco una breve introduzione alle sue opere.
I’d come into filmmaking as a painter so, for me, making Good Will Hunting was experimental because I didn’t know how to do it – Gus Van Sant
Gus Van Sant è un genio dell’indie americano. Da quando, a partire dagli anni ’60, le grandi major hanno cominciato a perdere potere e il controllo sulle sale, una nuova generazione si è fatta avanti, diventando portavoce di nuove idee, nuovi modi di intendere il mondo e l’arte. Dopo il ’68 queste tendenze già esistenti non hanno fatto che acutizzarsi, culminando nella nascita della New Hollywood. Oltre ad un approccio più autoriale ed occidentale, si cominciò a creare una vera e propria scena indipendente, formata spesso dai registi meno vicini al grande pubblico. Questi autori avevano un maggiore controllo sulla produzione dei film, rinunciando ai grandi budget ed alla grande distribuzione.
Se indie significa dunque portare valori diversi da quelli del normale spettatore da multisala, sperimentare, stare dalla parte dei diversi, Gus Van Sant rientra perfettamente in questa definizione. Van Sant, artista poliedrico nato a Louisville ma molto legato a Portland (come si vede in molti suoi film), rappresenta una generazione di registi che hanno preferito stare lontano dalla scena mainstream per concentrarsi sul loro percorso artistico, senza compromessi né limitazioni. Dichiaratamente gay, nei suoi film tratta temi molto complessi come l’omosessualità, la tossicodipendenza, la morte, l’emarginazione sociale, la mancanza di una famiglia e della sua compulsiva ricerca e molto altro.
Questo breve articolo vuole essere un’introduzione ad un artista complesso che nel corso della sua carriera ha attraversato tre grandi fasi. Abbiamo dunque selezionato un film per ogniuna di queste fasi per farvi approcciare ad uno dei migliori registi indipendenti americani.
Van Sant nasce come artista indipendente. Alla terza produzione, dopo essersi già fatto notare nell’ambiente con Drugstore Cowboy, sforna quello è considerato il capolavoro di questa prima fase oltre che fra i migliori in assoluto. Il regista di Portland rielabora l’Enrico IV di Shakespeare portandolo alla contemporaneità, affidando il problema della successione al padre a Keanu Reeves. Ma i protagonisti sono due, e forse è proprio il compianto River Phoenix a rubare la scena, con una prestazione magistrale. I due hanno entrambi problemi con il concetto tradizionale di famiglia: Mike (River) è un ragazzo narcolettico e squattrinato che vaga in cerca della madre, Scott (Keanu) è figlio del sindaco, ma ne rifugge fino ai suoi ultimi attimi di vita, preferendo seguire, così come Mike, Bob, il Falstaff della situazione.
I due vivono nell’ambiente della prostituzione maschile. Per Mike è un modo di guadagnare da vivere, mentre per Scott si tratta di un gioco, di trasgressione. Mike partirà per un lungo viaggio (che, a ben vedere, continua ormai da tempo) per trovare sua madre, lontana fisicamente e sempre di più mentalmente. Una ricerca continua della felicità perduta, quella infantile, di cui gli restano solo pochi e fugaci ricordi.
2. Good Will Hunting, 1997
Dopo My own Private Idaho Van Sant gira altri due film, con risultati altalenanti. Even Cowgirls get the Blues è un flop, mentre To Die For riscontra un buon successo, anche di pubblico. A questo punto c’è una vera e propria svolta nella sua carriera, perché arriva la sua prima produzione hollywoodiana. Il cinema indipendente è arrivato ai piani alti.
Dirige quindi il film che lo ha fatto conoscere a tutto il mondo: Good Will Hunting. La storia è quella di Will Hunting (Matt Damon), giovane genio della matematica con qualche problema disciplinare. Lavora come bidello all’MIT, fino a quando risolve un difficile problema che il professore Lambeau lascia sulla lavagna. Ma Will è un ribelle: beccato dalla polizia in una rissa, viene arrestato. Il professore, all’udienza, riesce ad evitargli la prigione, a condizione che il ragazzo studi con lui e comincia una terapia dallo psicologo. Lambeau, dopo lo scarso successo della terapia, chiama un suo vecchio amico, lo psicologo Sean Maguire (Robin Williams). Tra i due nascerà un rapporto molto intenso che riuscirà a far svoltare la vita a Will.
Torna qui uno dei temi principe del cinema dell’americano: la famiglia, o meglio l’assenza e la ricerca di essa. Il rapporto che nasce tra Sean e Will diventa quasi un rapporto padre-figlio a cui entrambi aspirano. Il primo ha perso la meglio a causa di un cancro e non ha figli, mentre il secondo ha bisogno di una figura paterna a cui potersi appoggiare. Come prevedibile, arrivando alla grande distribuzione Van Sant lascia per strada parte del suo cinema sperimentale, per affidarsi ad una formula molto più tradizionale (e per certi versi solida). Non è certo l’originalità a stupire del film, né il suo intreccio quasi prevedibile. Ma è la delicatezza con cui si muove, con cui parla e ci parla il dottor Maguire, in una delle migliori interpretazioni di sempre del grande Robin Williams.
Il film verrà candidato a ben 9 statuette, vincendo poi quelle per la migliore sceneggiatura originale e quella per il miglior attore non protagonista, andata proprio a Williams. Un successo commerciale ancora senza pari per il cinema di Van Sant che ancora oggi è spesso ricordato per questo film.
3. Elephant, 2003
Dopo l’esperienza con grandi produzioni, continuata con il remake frame per frame di Psycho e Finding Forrest, Van Sant torna al cinema che lo ha reso famoso nell’ambiente indie. Comincia con Gerry (2002) la “Trilogia della morte“, che continua l’anno successivo con Elephant, un film che racconta quel folle microcosmo delle sparatorie nelle scuole americane.
Qui Van Sant torna a sperimentare sul medium cinema, usando una forma di narrazione decisamente atipica ed usando la macchina da presa in maniera totalmente diversa da quella convenzionale. È stato giustamente osservato come il regista abbia voluto instaurare, con queste lunghe inquadrature a seguire i personaggi di schiena, un parallelismo con il mondo dei videogiochi, spesso fisicamente richiamati sullo schermo. Un gioco che diventa reale, tanto da sembrare tutto finto, che la finzione sfondi completamente la realtà. Eppure le fredde ed asettiche immagini del film non sono lontane dalla realtà dei fatti. Anzi, ne sono, in un certo senso, una rappresentazione iperrealistica.
Quello delle sparatorie nelle scuole del resto è un problema tutto americano che Van Sant cerca di indagare. Lo fa però restando sempre all’esterno, senza confondersi mai con i personaggi, cercando di mostrarci acriticamente i fatti e gli eventi che hanno portato a questa tragedia, ispirata a quella della scuola di Columbine. Van Sant non giudica, né pretende di capire un atto che pare figlio della follia. Non enfatizza neanche la drammaticità della morte: tutto scorre naturalmente sullo schermo.
Il film avrà un grande successo nell’ambiente indipendente e darà grande lustro alla carriera di Vans Sant vincendo la Palma d’Oro a Cannes, senza dubbio il riconoscimento più alto che il regista di Portland abbia ricevuto nella sua carriera per quello che è spesso considerato come la massima espressione del suo cinema, lontano dall’omologazione e dalle norme stabilite.