Il parlato nelle canzoni italiane

Parlato
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La forma-canzone, nella sua diffusione più popolare, ha sempre fatto leva sulla melodia del canto.

Un orecchio distratto e superficiale infatti tende a non apprezzare direttamente l’arrangiamento e la costruzione musicale di una canzone. Ovviamente, pur non essendone consapevole in questi casi, l’ascoltatore, gode di una canzone in tutte le sue componenti, motivo per cui, estremizzando, le canzoni a cappella difficilmente verrebbero apprezzate.

Esistono però numerosi casi in cui all’interno della canzone si faccia utilizzo del parlato: la voce infatti non esegue una vera e propria melodia ma pronuncia le parole recitandole. E’ una tendenza che non può essere definita solo in questo modo, poiché sarebbe troppo riduttivo alla luce della vasta gamma di tipologie del parlato stesso. Si potrebbe inoltre riflettere sul significato stesso di melodia, chiederci se anche nel parlare emettiamo suoni “melodici”. Un confine labile e sottile in alcuni casi; ma allo stesso tempo esistono canzoni in cui questa differenza sembra evidente.

Affronteremo dunque le varie tipologie riportando alcuni esempi notevoli, forse non esaustivi a livello numerico, di parlato nelle canzoni e di artisti che ne hanno fatto uso limitandoci al panorama italiano. Innanzitutto un discorso a parte meriterebbe il rap ed il suo cosiddetto flow, strettamente legato e derivante dal parlato ma con differenze non indifferenti, ma non ne tratteremo in questa sede.

Esistono innanzitutto canzoni che “rifiutano” totalmente il cantato.

In questo caso dunque la voce esegue un testo senza una melodia. Prendiamo due esempi interessanti al riguardo, due canzoni non eccessivamente note e molto distanti tra loro per contenuto del testo e stile: Ho Conosciuto Il Dolore di Roberto Vecchioni e Te Lo Faccio Vedere Chi Sono Io di Piero Ciampi. Entrambi hanno fatto utilizzo più volte del parlato nella loro discografia.

 

Ho Conosciuto Il Dolore ha un contenuto decisamente drammatico, ma allo stesso tempo, come frequente nella poetica di Vecchioni, contiene un messaggio di speranza. Il dolore viene personificato, lo si incontra, lo si conosce, ci si parla e ci si combatte contro, ma allo stesso tempo viene rivendicata la differenza tra l’essere umano e il dolore; il dolore viene aggredito ed allo stesso tempo compatito per “essere condannato al suo mestiere, al suo dolore..” . La canzone è interamente parlata, tranne un breve frammento in cui Vecchioni sembra accennare una melodia in un verso nell’ultima strofa, ma sembra talmente spontaneo che non dà impressione di essere riportato su partitura. Vecchioni, oltre ad essere un ottimo cantante (e grandissimo autore) è anche un ottimo oratore, dal tono di voce affascinante mentre parla (caratteristica spesso fondamentale per i parlati più riusciti) ed interpreta alla grande questi versi scritti da lui che però non rispondono al rigido meccanismo della rima costante.

Ecco quindi una delle differenze più frequenti tra il cantato ed il parlato: la fuga dalla rigidità delle rime.

Questo, come vedremo, non avviene sempre (anche nel testo di Vecchioni sono presenti in alcuni casi) nè tantomeno la mancanza di rime pregiudica la musicalità di un testo. Anzi, proprio il non concentrarsi sulla ricerca di rime permette probabilmente un’ulteriore attenzione alla musicalità delle singole parole.

Te Lo Faccio Vedere Che Sono Io è un caso che in comune ha solo la scelta totale del parlato. Con la canzone di Piero Ciampi (non nuovo a questo genere, celebre ad esempio la sua Adius con i suoi ripetuti “vaffanculo”, privi di melodia) siamo lontani anche dalla composizione in versi. Più che di parlato, qui si tratta di un tono e di un linguaggio assolutamente colloquiale, con tutti gli intercalari, le imprecisioni e le pause del parlare quotidiano. Tutti elementi a favore del contenuto ironico della canzone (le continue promesse non mantenute di un uomo alla sua donna).

In entrambe le canzoni il contributo dell’arrangiamento è considerevole. Dunque occorre una riflessione sul rapporto tra musica e parole in questo tipo di canzoni. La musica detta si i tempi ma la voce non si appoggia sugli accordi che essa propone. Sembra dunque minima, paradossalmente, la distanza tra musica di una canzone strumentale e musica di una canzone “parlata”: ad entrambe è richiesta una buona dose di indipendenza o forse potremmo dire di una sorta “autarchia”; entrambe devono reggere l’assenza di una melodia eseguita dalla voce, ma allo stesso tempo la seconda deve mettersi ancor di più al servizio della voce, offrendo il miglior tappeto su cui poggiarsi.

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Nel caso di scelte così totali meritano indubbiamente una citazione artisti che hanno fatto del parlato un loro segno contraddistintivo, utilizzandolo praticamente in tutta la discografia. Due gruppi su tutti e una rispettiva canzone. Ed entrambi fuggono dalla rigidità delle rime.

In primis i Massimo Volume, che hanno attraversato tutti gli anni ’90, di cui scegliamo Il Primo Dio (da Lungo I Bordi, 1995) ispirata alla figura ed alla vita del poeta italiano Emmanuel Carnevali emigrato in America ed in grado di rendere ancora più affascinante la figura di Carnevali stesso.

Se i Massimo Volume sembrano tendere comunque alla scrittura in versi, al contrario gli Offlaga Disco Pax, sembrano recitare testi in prosa. Tuttavia vengono intepretati con pause, scanditi dai tempi che la musica suggerisce. La canzone Sensibile (da Bachelite, 2008) è una delle più belle oltre che più intense. E’ una riflessione sull’utilizzo controverso che fece dell’aggettivo sensibile la terrorista Francesca Mambro nel descrivere suo marito Giusva Fioravanti, terrorista anch’esso. Canzone evocativa anch’essa, che con i suoni e con il parlato lascia ancora più spazio al nostro pensiero che ci riporta immagini di crudeltà e degli anni del terrorismo oltre che l’amarezza contenuta nel finale.

Sposandoci verso scelte meno nette, troviamo canzoni in cui il parlato occupa la maggior parte della canzone.

Prendiamo due canzoni che presentano un’introduzione breve, cantata; mentre il resto della canzone è recitato.

Cominciamo con una delle più note: Signor Tenente di Giorgio Faletti. Presentata a Sanremo e classificatosi secondo e vincitore del Premio Della Critica. E’ una canzone di enorme intensità, sulle condizioni delle forze dell’ordine nella lotta contro la criminalità organizzata e colpisce al primo ascolto, interpretata con un accento siciliano. A differenza dei casi di cui sopra Faletti non solo scrive in versi, ma compone anche rime.

Qui si palesa la questione riguardante la voce a cui accennavamo con Vecchioni, parlando di Faletti, non principalmente un cantante pur disimpegnandosi discretamente. Le canzoni di cui stiamo trattando, richiedono più che intonazione, un bel tono di voce e spesso una grande capacità recitativa.

Per l’introduzione cantata (riproposta poi in coda alla canzone) è anche caratterizzata Monolocale di Daniele Silvestri (da Acrobati, 2016). Nella parte recitata scompaiono le rime. E come scrittura siamo forse più vicini a quella degli Offlaga Disco Pax. E’ un testo recitato in prima persona, a parlare è una donna che narra ad episodi la sua vita di sofferenza ed ora sul punto di suicidarsi. Il tutto si appoggia su un arrangiamento complesso e spigoloso, quasi caotico (per modo di dire) e sembra farci entrare ancor più all’interno della mente della tormentata protagonista.

Ripartiamo sempre da Silvestri per spostarci ancora.

Del parlato/recitato Silvestri è uno dei maggiori esponenti. Monolocale però, nella sua non scrittura in rima è un caso sporadico nella sua discografia. Solitamente Silvestri tende ad incastrare il suo parlato in una metrica precisa, strettamente legata al ritmo della canzone e nella scrittura in rima. E’ il caso di Autostrada (da Unò-due, 2002), meravigliosa e suggestiva narrazione di un incontro tra un uomo e una donna (ve ne avevamo parlato qui). Qui siamo ancora di più nella commistione: sia per quanto detto ora, sia per il ritornello cantato.

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Siamo forse ai limiti del parlato in Sogno-B, sempre di Silvestri. Qui vi è una cadenza ancora maggiore, dato anche dal maggior numero di parole che vengono pronunciate quasi a flusso. Anche qui grande prova di scrittura di Silvestri che riesce a scrivere una canzone precisamente sulla “cacca” con grande ironia. Il ritornello è cantato anche in questo caso.

Uno degli esempi più recenti e più fortunati è Stiamo Tutti Bene di Mirkoeilcane (di cui vi abbiamo parlato qui). La canzone presenta lunghe strofe recitate, in versi e rime, ed il linguaggio semplice e diretto ma allo stesso tempo con una complessa costruzione rende ancora più verosimile la narrazione in prima persona del bambino protagonista. Il ritornello è breve, soprattutto in relazione al resto, e leggermente melodico.

Torniamo a Roberto Vecchioni per due esempi interessanti.

Il primo è Blu(e)notte. Canzone dalla strofa parlata, poggiata su un’arrangiamento rock che nel ritornello riporta dei versi della poesia X Agosto di Giovanni Pascoli che vengono però cantati dalle coriste. Interessante che le uniche parole cantate di queste canzoni siano tratte da una poesia già esistente.

Il secondo è la canzone Dentro Gli Occhi. Presenta una strofa parlata, che però nella versione originale in studio è accompagnata da un canto delle stesse parole da parte dello stesso Vecchioni. Il resto della canzone (ponte, ritornello e seconda strofa) è cantato. Noi vi alleghiamo qui la versione eseguita dal vivo al concerto alla RSI (esibizione molto intensa), in cui Vecchioni recita la canzone, mantenendo il cantato solo nel ritornello, che non a caso sembra presentare uno stacco netto anche nel testo rispetto alla strofa.

Meritano attenzione le canzoni che potremmo definire a dialogoRispondono a questa voce diverse canzoni. La prima è la drammatica Piange.. Il Telefono di Domenico Modugno. In questa canzone Modugno interpreta un uomo che telefona ad una bambina, le sue battute sono cantate, mentre le risposte della bambina sono parlate.

Altri esempi sono riscontrabili nella discografia degli Elio E Le Storie tese. In due canzoni in particolare, con una struttura a dialogo, il confine tra parlato e cantato nelle strofe è minimo: Servi Della Gleba e Cara Ti Amo.

La prima è più vicina alla forma-canzone tradizionale (aggettivo da prendere con le pinze se ci si riferisce agli Eelst), oltre al dialogo tra gruppo di amici (coro) e protagonista, presenta anche una coda strumentale che accompagna una telefonata (parlata e dal linguaggio colloquiale, simile al Ciampi mostrato sopra, per intenderci).

Cara Ti Amo invece è più vicina al teatro-canzone o cabaret, inscenando un dialogo tra uomo e donna.

La labilità del confine tra cantato e recitato/parlato è forse manifesta in C’è Tempo di Ivano Fossati (da Lampo Viaggiatore, 2003). Tra i migliori testi del cantautore genovese, è’ una canzone sul tempo e sul destino della nostra vita, in cui forse è tutto già scritto. Una visione che però deve conciliare con la volontà e libertà di vivere ogni momento. La voce di Fossati si appoggia su accordi aperti.

La melodia nella prima parte sembra non esserci nella voce o tende al minimo. Differente è invece nella seconda parte, in cui in linea con un’apertura e cambio di tonalità inizia la sequenza melodica. Anche in questo passaggio però non mancano momenti in cui ci si avvicina più al parlato, coincidente con un minor rispetto di una metrica rigida (” […] son qui arruffato dentro una sala d’aspetto di un tram che non viene […]”).

Con questa canzone, così ibrida, si ferma questa panoramica sul parlato nella canzone italiana, per ricordarci quanto siano sottili i confini del concetto di melodia, di cantato e la varietà di interpretazioni vocali nelle canzoni.