Paterson – Recensione

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“Iniziai a fare gite nell’area cittadina. Camminavo per le strade; andavo nelle domeniche estive quando le persone stavano al parco, e ascoltavo le loro conversazioni più che potevo. Vidi tutto ciò che fecero, e lo resi parte del poema.”

(William Carlos Williams, sul proprio poema, Paterson)


Ci sono opere che trattano la poesia come argomento, altre che diventano esse stesse l’argomento poetico. Jarmush, con la sua ultima pellicola, candidata alla Palma d’Oro a Cannes, vuole entrambe le cose.

Paterson è una città.
Paterson è un guidatore di autobus.
Paterson è la destinazione dell’autobus.
Perché le parole mostrano un significato, i luoghi sono persone e le persone sono i luoghi che abitano. La città è l’insieme dei suoi abitanti e della loro storia, il fluire delle loro giornate monotone e vere, come le giornate di tutti. Paterson – l’uomo – si sveglia ogni mattina con la propria compagna, va a lavoro, parla col collega Donny, si mette in moto. Ma prima, annota sul taccuino la propria esistenza, che sgorga incessante e precisa, semplice ed esplicativa, direttamente dalla mite mente all’inchiostro e alla carta. Paterson è un poeta, con una foto di Dante nella borsa del pranzo, accanto a una della compagna. Lei è la musa, unica a rappresentare l’amore di cui e per cui scrive. Una donna eccentrica, sconclusionata, un po’ bambina. Si presentano come una coppia semplice e unita, disfunzionale e tenera – come tutte le migliori coppie. Mentre lei è una sognatrice del reale e dell’esteriore – vuole cucinare, suonare, dipingere – lui è un sognatore di sé stesso e del proprio mondo, dell’esperienza che ogni giorno, sempre uguale e sempre diverso, riesce a offrire. In particolare, Paterson è poeta del piccolo e del giornaliero. Questo lo capiamo subito, dalla lirica di passione nata dalle riflessioni su di un pacchetto di fiammiferi. L’ispirazione pascoliana al piccolo e al comune deriva da un’inclinazione d’animo tendente alla calma, al lavoro, alla serenità interiore. L’incedere giornaliero è parte stessa della personalità di Paterson, che non ha assolutamente alcun bisogno di uscire dalla propria routine, ma anzi tramite essa si ciba per scrivere: da una dolce e monotona pace nasce l’estro creativo.

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L’attenzione al minimale e al delicato trova sua esplicitazione nel fatto che il poeta preferito dal protagonista sia William Carlos Williams, anch’egli originario del New Jersey, autore di un poema epico dal titolo, appunto, Paterson. Williams è anche la figura di riferimento per l’intera pellicola, e ci basta un estratto dalla prima parte del già citato poema per capirlo:

“Paterson lies in the valley under the Passaic Falls

its spent waters forming the outline of his back. He

lies on his right side, head near the thunder

of the waters filling his dreams!”

(Paterson, I – The Delineaments of the Giants, William Carlos Williams)

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Ogni giorno l’autobus regala dialoghi: da dei bambini che scherzano a due uomini che si raccontano balle, alle vecchiette, ai lavoratori, ai vari frammenti della città. Paterson trova così brevi distrazioni dal lavoro, come noi passiamo da sfuocati assolati e riprese fisse di lancette che ruotano alla realtà delle conversazioni. Il tempo viene cinematograficamente trattato come imponente soggetto: Jarmush riesce a darci il senso di estraneazione delle ore che scorrono, e dei giorni che incedono. Ogni sera, Paterson va regolarmente a passeggio col cane Murphy, parcheggiandolo fuori dal bar di Doc, dove si siede, conversa – poco – e beve birra. Tutti i personaggi che incontriamo sono delineati da personalità nette ma mai invadenti, mai scontate. Ognuno è poeta e ognuno è attore: così assistiamo a piccoli drammi estemporanei, tra fidanzamenti male assortiti e litigi coniugali, difficoltà lavorative e via dicendo. Il tutto è convogliato con la sincerità sconcertante di una sceneggiatura lieve, ma densa, che riesce a esprimere perfettamente il mondo del protagonista e a esplicitarne la produzione poetica: il taccuino di Paterson si riempie di liriche prive di rima, dai lunghi versi, lente e complessive, che hanno come matrice creativa la dolcezza di una mente pura e disinibita.

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Il simbolo è fondamentale componente poetico, e Jarmush ne cosparge la pellicola: basti pensare ai gemelli, al fluire dell’acqua, all’orologio sempre presente, agli stessi pacchetti di fiammiferi e via dicendo. Così come anche il protagonista è specchio della propria città e suo simbolo nominale, a totale rappresentazione della poeticità di un luogo. E non è un caso che l’epifanico finale sia relegato a una figura di origini orientali: il minimalismo e la semplicità espressiva, come già detto, regnano la pellicola, tanto da far pensare a una forma di haiku cinematografico. Paterson dimostra, in conclusione, come la creazione sia insita all’uomo sensibile, alla stregua di un tratto somatico, e come questa si esteriori nel proprio ambiente di vita. Ognuno, in questo film, è poeta e attore perché i nostri occhi sono gli occhi calmi e pensosi di Paterson. Grazie a questo fenomenale personaggio – a cui Adam Driver dona una notevole prova attoriale – il nuovo lavoro di Jarmush riesce a coprirsi del velo poetico e ad ironizzare sui propri stessi mezzi narrativi, creando un intimo affresco di profonda delicatezza espressiva.

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