Neruda – Recensione

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Il nuovo film di Larrain spiazza nella sua imprevedibilità, riuscendo a non intricarsi nella sola materia politica e a presentare una poliedricità ammirevole, che evidenzia la già nota abilità del regista di No (2012) ed El Club (2015).

Pablo Neruda, poeta e senatore, ci è fin da subito presentato nelle sue posizioni politiche di sinistra popolare, che nel corso della sua vita hanno preso sempre più a invadere la produzione poetica e a compenetrarla. Neruda, interpretato da Luis Gnecco, finisce nell’illegalità per via di un governo autoritario anticomunista – illegalità che ben presto si rivela quasi fittizia: il poeta continua a godere della propria fama nelle feste e nei ritrovi della sinistra cilena, rappresentando così la contraddizione storicamente incarnata da varie figure politiche di orientamento popolare. Il narratore, in iniziale antitesi col poeta, è Oscar Peluchonneau (interpretato da Gael García Bernal), un poliziotto dall’animo deciso e imperioso, di cui vogliamo riportare una caratteristica descrizione espressa dagli abitanti delle Ande nella seconda parte del film: “Un po’ violento, un po’ coglione”.

La sceneggiatura di Calderòn lascia che sia una donna lavoratrice, ubriaca a una festa tra il popolare e lo sfarzoso, a esplicitare al pubblico l’inconsistenza della fuga di Neruda: la sua indisturbata partecipazione agli eventi comunisti è prova stessa del fatto che il governo non lo vuole catturato, ma piuttosto ricercato. Il poeta e le sue azioni fungono infatti da materia di campagna politica sia per la sinistra perseguitata che per l’autorità governativa, che tende a dipingerlo come traditore fuorilegge. Pablo fa spedire in continuazione le sue poesie tra i lavoratori e la sinistra benestante del Cile, per continuare a dar consistenza con la propria parola all’opposizione al governo. Consapevole di essere ormai una semplice maschera nel panorama politico, crede comunque nella forza del verba manent. Nonostante la pellicola ci mostri le buone intenzioni del poeta, non manca di evidenziare la perdita di consistenza di una politica generalmente inconcludente e di un’arte che ha finito per perdere la propria indipendenza.

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La fotografia dalle tonalità violacee ci trasmette i colori dello stesso Cile, raccontatoci come una terra quasi arida, in contrasto con la vicina e verdeggiante Argentina. Di frequente vengono proposti stacchi di montaggio sulla continuazione di uno stesso dialogo, a indizio del sentimento di finzione e messa in scena che fonderà il senso del film. Molti giochi di luce ci accompagnano nel corso della visione, dagli abbagli delle finestre delle case cittadine ai riflessi in controluce sulle bianche Ande, conferendo alla pellicola un’atmosfera indefinita e ineffabile, a simbolica rappresentazione del continuo gioco di specchi tra gli animi dei due personaggi principali. Infatti, la contrapposizione iniziale tra il poliziotto e il poeta si vanifica pian piano che Peluchonneau entra in contatto con l’animo della sua controparte. Inoltre, nella sua perpetua narrazione, l’agente di stato si rivela sempre più aforistico e lirico: “Forse sono stato un Neruda”, gli sentiamo ammettere a un punto della vicenda. Lo stesso Peluchonneau, che cerca incessantemente di imporsi come figura portante della storia, come vero protagonista, finisce per scoprire la propria secondarietà di fatto. Grazie al suo colloquio con la moglie del poeta cominciamo a scoprire dove ci voglia realmente condurre l’opera, nella vera potenza di questa irreale sceneggiatura. Pablo ci viene infatti finalmente presentato come un grande demiurgo, generatore (metaforico o meno) della stessa vicenda, relegando così Peluchonneau a rappresentazione di un pirandelliano personaggio in cerca d’autore. La forza dell’espressione letteraria e narrativa diventa così una tematica focale, tanto da valicare nella mente dello spettatore ogni importanza precedentemente attribuita ai singoli personaggi. Il poliziotto finisce per rappresentare idealmente una creazione (letteraria o mentale) di Neruda, e come tale appare non solo come frutto del poeta stesso, ma piuttosto come parte consistente di esso: tra le due personalità si ha una graduale sintesi, che culmina nella parte finale del film. Capiamo quindi l’importanza della scena in cui Peluchonneau, guardando una serie di prostitute tra cui vi era nascosto lo stesso Neruda, dice: “Ognuna di queste donne è mia madre”. Non si tratta di una semplice nota biografica del personaggio: con un espediente dai toni ironici, il poeta è presentato come metaforica genitrice, naturale e libera forza creatrice. L’oggetto finale del film è quindi la creazione stessa come primo atto artistico.

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Nella decadenza della politica e dell’idea pura di arte per l’arte il film trova un punto nodale da cui ergersi. Quindi nel concetto stesso di finzione si plasma un nuovo indirizzo: negli abbagli e nei continui stacchi si ha la rappresentazione visiva della materia meta-cinematografica. La regia incanala la finzione letteraria e la rende così viva: realtà e finzione si fondono, e non necessitano una distinzione. Dopotutto, quando vinse il nobel, Neruda stesso commentò così i suoi anni in fuga: “Non so se li ho vissuti, sognati o scritti”. Nonostante le possibili complesse implicazioni di significato, il film riesce comunque – ed è qui un non banale punto di forza – a mantenere costante il ritmo della narrazione principale. Altro valore aggiunto all’opera è la presenza di elementi del celebre realismo magico sudamericano, rilevabili soprattutto verso la conclusione del film.

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Neruda, come esplicitamente detto da Larrain stesso, è in fin dei conti un film che non parla della vita del poeta, né intende farlo. Tratta di finzione e di cinema, di arte e di materia narrativa, dando una propria prospettiva su un particolare contesto politico e su una personalità caratteristica e culturalmente imponente. Il film, che rischia la pedanteria nella sua complessità, si riscatta appieno nella già citata forza narrativa e in una regia che alterna il comico e il grottesco al drammatico, al biografico e al noir. Questa mirabile poliedricità permette alla sceneggiatura di esprimersi nel miglior modo possibile, convogliando un messaggio multilivello senza confondere inutilmente lo spettatore, e permettendo così di godere appieno di una pellicola magistralmente girata.